Di Marco Guidi
Alcuni dicono che la Street Photography non esiste. Può essere vero? Non saprei, ma so di certo che esiste Paul McDonough, ed è pure vivo e vegeto.
Circa sessant’anni fa sente il richiamo dell’arte, dai tempi di Portsmouth, quella dove tirava l’aria del New Hampshire, aria che porta al giovane Paul il profumo della storia dell’arte e il richiamo della pittura.
Passare la vita in uno studio tra tele e colori però sarebbe stato frustrante tanto quanto un ragioniere inconsapevole sceglie di fare carriera chiuso dentro un ufficio. Aveva più l’attitudine del rappresentante, la faccia tosta per la quale però è impossibile, quasi impensabile arrabbiarsi.
“Le persone sono assorte quando camminano” Dice McDonough. “Ma se qualcuno dovesse chiedermi: Ehi, Mi hai appena scattato una foto?” Io risponderei: Quale foto? Io non faccio foto, io sto facendo prendere luce ad una pellicola. Solo quando la pellicola verrà sviluppata io scoprirò se effettivamente ho fotografato.” Si può solo immaginare, il sorriso furbo di chi sa quello che sta facendo.
Questo concetto poi lo esprimerà meglio in una dichiarazione successiva: “Spesso vivo una gioia inaspettata quando trovo un dettaglio all’interno del fotogramma che amplifica il significato che avevo ipotizzato inizialmente per l’immagine fotografica. Un dettaglio che non avevo notato al momento in cui ero intento a prendere la foto”.
Arrivato a New York nel 1967, provò una sensazione tale di libertà che respirare equivaleva a caricare una pellicola da 400 Asa all’interno della macchina fotografica. In soli tre anni dunque portò a termine il suo primo lavoro dedicato alla Grande Mela, in cui aveva trovato certe dinamiche e certe stranezze che nel periodo trascorso a Cambridge, più composta e sedentaria, non immaginava nemmeno.
Lo sgargiante gomitolo di strade Newyorkese, il caleidoscopio pazzo di luci, macchine gialle e grattacieli dopo un po’ risulterà essere troppo evidente. Preferisce spostarsi su qualcosa che sta nuovamente e poeticamente per essere idealizzato, ma che sarà una commedia al contrario. L’Ovest.
E’ con West Headed che si concentra il suo vero lavoro a lungo termine, frutto di una ricerca e di un accumulo di materiale quasi compulsivo, durata trent’anni. In questi trent’anni ogni volta che se ne presentava l’occasione, pensava, prima di scattare.
La fotografia gli è servita per essere un pensatore, un filosofo della distinzione tra realtà e verità, una sorta di Marcuse che ha dalla sua pellicola e otturatore, che inquadra tanti uomini in una dimensione. Quella immediata al Sessantotto. Quella della mania di guardare ad ovest. Come se la società fosse tranquillamente impazzita e prendesse l’orientamento con una bussola distorta, corrotta da una nuova febbre dell’oro.
West Headed è francofortiano, parla di un’illusione travestita da speranza, con abiti alla moda. Nur um der Hoffnungslosen willen ist uns die Hoffnung gegeben“ , “È solo per il bene di coloro che non hanno speranza che la speranza ci è stata data”.
Le fotografie del libro vorrebbero avvertire dell’illusione dell’Ovest, che Hollywood e compagnia fanno parte di un paradiso modaiolo per stolti, ma poi sappiamo che ci si deve sbattere la testa per capire le cose, specie da giovani ma non solo.
Continua a leggere sul sito di Marco Guidi
Lascia un commento