Franco Razzini, fotografo lodigiano, classe 1930.
Tempo fa mi aveva dato una nutrita serie di suoi files, qui ho dovuto condensare. Ma è già lui, a condensare.
Ho più volte osservato – e lui mi disse che altri avevano espresso lo stesso concetto con altre parole – che spesso i suoi scatti illustrano meglio di un intero trattato di sociologia.
Condensano. Sunteggiano.Sintetizzano.
Con un icastico tratto, svelano. Temperie, relazioni, situazioni. Con una pennellata, chiarisce. Con lui diviene facile il gioco di attribuire titoli: il tono è netto.
La prima fotografia? Forzata incomunicabilità.
La seconda? Età ed aspettative.
La terza? Come in un set.
La quarta? Il vizio celato.
Sue singole immagini hanno ottenuto lusinghieri riconoscimenti, ma io ho preferito estrapolare da una sua felice serie ambientata alla Stazione Centrale di Milano.
La fida Rolleiflex dissimulata sotto un panno, il dito pronto a fissare vibranti spaccati sociostorici.
I suoi personaggi esprimono un certo tasso di meccanicistica legnosità, perché Razzini li concepisce come pedine dell’arazzo che intende disegnare, non come singole palpitazioni.
Ma a palpitare è il contesto.
Nitidamente feroce nel narrare in un sol colpo, Razzini denuda più che una psicologia, un intreccio.
Dallo iato tra secolarità e confessionalità che il costume impone alla prima immagine, alla prosciugata allegoria della seconda.
Dall’inpreveduto sapore cinematografico della terza, che invece effigia una spontanea casualità, al potente grafismo della quarta, tra individualità e segno collettivizzabile.
Limpido nitore, spietata osservazione.
Cartesiano senza saperlo, il Maestro Razzini.
Consegna alla posterità un come eravamo denso ed asciutto ad un tempo.
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