a cura di Filippo Crea
Vediamo perché.
Introduce l’argomento Andy Warol, protagonista della Pop Art, che scrive
“…non essere triste e pensieroso, ricorda che la vita è come uno specchio, e ti sorride se la guardi sorridendo…”
Ed eccoci quindi allo specchio che ci regala spesso immagini suggestive e di diversissima matrice.
Quando è nato lo specchio? Lo specchio è nato in tempi remotissimi, quando i nostri nonni cavernicoli scoprirono che una pozza d’acqua rifletteva la loro figura. La storia dello specchio, da allora e fino ai giorni nostri, è diventata enorme, e non può essere qui riassunta. E’ storia affascinante: lo specchio è al suo nascere una superficie grezza qualsiasi, metallica e non, che, levigata opportunamente e trattata con taluni procedimenti chimici via via ottimizzati fa ottimamente il suo mestiere di <specchio>. Più tardi diventa un oggetto, più o meno prezioso, presente nella vita quotidiana dell’uomo. Affinandosi sempre più diventa, per opera di artisti gioiellieri, diventa anche ornamento femminile. Funge da <specchio ustore> come arma di guerra, ed da utensile per accendere il fuoco domestico. E’ portatore raffinato di molti e fantastici simbolismi (vi dice niente Narciso?).
Oggi desidero analizzare il rapporto Specchio vs Fotografia nella fiducia che le immagini prescelte, per quanto non impreziosite dal mio gergo poco acculturato, possano essere suggerimento e stimolo per 9.999 appassionati.
È Guyla Halasz, che passerà alla storia della Fotografia con lo pseudonimo di Brassai, il primo a salire sul palcoscenico e qui, con un solo fotogramma (hotel de passe – del 1932), racconta una storia umanissima. Si è appena concluso un incontro sessuale; l’uomo si riveste e la donna, vista nello specchio di un anonimo armadio, esprime una gestualità di inequivocabile lettura. François Mauriac, Maestro della Letteratura francese, dice di lui “Brassai est un revelateur de microcosmes inconnus” – (Brassai è uno scopritore di microcosmi sconosciuti). E questa sua fotografia è, difatti, la storia di un microcosmo reale. Brassai fu soprannominato “l’occhio di Parigi” per le affascinanti immagini notturne della città di cui indagava golosamente i luoghi più reconditi. La notte – diceva – non mostra, suggerisce e turba.
Ed ora dal verismo di Brassay passiamo ad una fotografia di diversa foto/scrittura di Francesca Woodman, giovanissima ed inquieta e sensibilissima artista, che evoca con questo suo autoritratto un fantasma della sua breve vita con una proposta di forte emotività. Francesca si muove carponi in uno spazio domestico dismesso, e si osserva nello specchio abbandonato in un ambiente senza vita. Funzionale il muro sbrecciato che è come la quinta di fondo di questo palcoscenico. Suggestivo lo sguardo disorientato di Francesca che lo specchio le rimanda. Dal punto di vista compositivo è da rilevare come Francesca entri in scena da uno spazio buio, simbolo di un territorio inquietante e sconosciuto. E’ così anche in moltissimi suoi altri autoritratti in cui è frequente il ricorso ad uno specchio di cui si serve come a volere mortificare la vitalità del suo giovane corpo fra muri sbrecciati e pavimenti polverosi. Francesca ricorre spesso ad esposizioni lunghe per ritrarsi come apparizione sfuocata, e come un fantasma in totale fusione con l’ambiente nel quale vuole mimetizzarsi.
Ed ora ecco Suzanne Saroff, di New York. Ha committenze con grandi firme dell’editoria e con primarie Aziende dell’arredamento, e tuttavia si è sempre riservata tempo e spazio per ricerche personali. E’ di questo suo comparto, di questa sua serie titolata “perpective” la fotografia che pubblico qui perché attuale e stilisticamente fuori dal “già visto”. Suzanne riempie di acqua bottiglie e bocce di vetro che in tal modo si trasformano in superfici specchianti, alle quali antepone cibi, fiori, ortaggi. Questi “specchi” riflettono immagini con volumi e cromatismi variamente distorti che danno vita a soluzioni figurative nuove ed accattivanti. In questa sua prova Suzanne ha assunto come protagoniste nient’altro che delle banane. Ed io questa fotografa ho voluto qui proporla poiché con questo mio scritto ho inteso mettere in evidenza opzioni di diversa scrittura.
Ed ora ecco “Bolivia, 1986” di un Maestro italianissimo, Ferdinando Scianna, del quale ho voluto questa immagine, anche se essa non fa parte delle sue fotografie più celebri. L’ho fatto di proposito per documentare come uno sguardo colto e attento possa vedere in un sito improbabile un’immagine fuori dal gregge. Come in questo caso in cui Scianna, sul retrovisore di una camionetta carica di esser umani ha isolato il volto intenso di una donna in fuga dalle drammatiche azioni di guerriglia del suo Paese. Cosa ho inteso rilevare? Che lo specchio può materializzarsi come strumento arricchente ovunque, nelle bocce specchianti di Suzanne Zaroff, od anche nella camera di un albergo ad ore. E cioè dappertutto.
Ed ora una fotografia di Alfred Eisentstaedt; ritrae alcune ballerine della <Dance School Truempy> di Berlino, moltiplicate per due da una superficie riflettente. Questa presa è speciale, le ballerine sono disposte a grappolo in un accattivante fotogramma graficamente piramidale. Alfred era primariamente un reporter ed ha lasciato documenti super sui personaggi più famosi del suo tempo. Io però, quando vedo questa fotografia, mi imbufalisco come un bufalo che faccia bene il suo mestiere di … bufalo. Mi inquieta verificare che Eisenstaedt sia passato alla storia della fotografia con, solo o quasi, il gettonatissimo bacio del marinaio e dell’infermiera in Times Square che il 15 agosto del ’45 impazzava per i festeggiamenti della fine della seconda guerra mondiale. Perché mi incavolo? Ce l’ho con gli storici della fotografia che esaltano a beneficio della posterità solo, o quasi, le immagini/icona dei Maestri della Fotografia. E’ così, ad esempio, anche per Dorothea Lange diventata celebre per la sua straordinaria, sofferente e dignitosa “Migrant Mother” del 1936. Trovo riduttivo che di Nerone si parli in prima battuta solo per ricordare l’incendio di Roma. In questo mio scritto ho frettolosamente messo in vetrina alcuni Maestri.
Mi piace però rendere omaggio anche al mondo dei fotoamatori che sono imperdibile stimolo alla maturazione della Fotografia, e lo faccio qui con una Immagine di Daniela Da Ros. Nel 2016, in chiusura di un concorso che aveva visto in competizione appassionati italiani e francesi, ho avuto il piacere di premiare questa giovane fotografa che, per il tema “Lo specchio”, si era segnalata con l’immagine qui pubblicata. Una fotografia, questa, che non so bene se e cosa avrebbe dovuto riflettere, ma il cui “niente” attribuiva alla sua opera un’aura di mistero. Io ne avevo intuito due positività: il rigore compositivo e la silenziosità cromatica. Alla mia domanda su cosa l’avesse indotta a immaginare questa fotografia, Daniela rispose con un candido “non lo so, avevo voglia di divertirmi”. Una risposta speciale. Daniela aveva in concreto intuito e voluto qualcosa che la sua creatività le aveva suggerito. E questo è il magico medium della creatività; si accende d’improvviso la famosa lampadina ed è fatta.
Ed ora chiamo in pista André Kertesz. Confesso, io non sono mai riuscito a collocare il suo <far fotografia> in un ambito estetico ben definito. Nel suo lavoro c’è stato sempre un costante mutamento di stile, di temi, di scrittura. I francesi definiscono “touche à tout” chi si impegna foss’anche dispersivamente in cose sempre diverse. E Kertesz è stato un “touche à tout”. Nel 1933 “le sourire”, una rivista satirica, gli chiede di realizzare immagini di nudo che rinnovino drasticamente il genere. E Kertesz, servendosi di specchi deformanti da Luna Park realizza ben 200 “distorsioni” – Al nudo femminile proposto sempre come simbolo di armonica perfezione, egli oppone immagini del corpo femminile grottescamente distorte, frantumate, destabilizzanti. Sono immagini non erotizzanti che affascinano, e che entrano di pieno diritto nella storia della fotografia d’arte. E qui ne pubblico una dal contenuto ancora riconoscibile e che, quindi, non è pienamente riconducibile al mix delle più tipiche sue distorsioni.
Ed ora concludo brevemente con una semplice istantanea di Elena Kubica, fotografa non professionista e però decisamente evoluta che stavolta, nel contesto di una festa familiare, ha percepito un’opportunità e l’ha gestita al meglio catturando una gestualità di bella atmosfera.
Allora, cari amici, insisto: il tema è uno strumento primario per l’affinamento del proprio linguaggio fotografico.
Filippo Crea
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