di Anna Fici
Sono confusa. Sono confusa e contusa. Perché sul ring dei social è avvenuta una di quelle risse da far west che coinvolge tutto e tutti, anche l’avventore casuale. Una di quelle risse che lasciano lividi, nasi rotti, cicatrici destinate a ridisegnare la nostra faccia, rendendoci tutti più brutti. Dopo non si torna indietro, non si torna come nuovi. Ciò che è accaduto è accaduto e non può essere ignorato. E forse è un bene che sia così perché se si tornasse rapidamente come nuovi il dolore procurato resterebbe vano e ciò che lo ha generato, incompreso. La fotografia sta male. In una società che sta male. Quella siciliana, di più.
È difficile entrare in argomento, senza ricadere nella padella sfrigolante delle polemiche. Il delirio scatenato dalle fotografie scattate da Letizia Battaglia per la campagna pubblicitaria della Lamborghini non dipende esclusivamente dalla natura gossippara e polarizzante dei social. C’è sicuramente dell’altro. Ed io vorrei sinceramente, accoratamente provare a capirlo. Ma non è semplice perché il ragionamento che l’accaduto indubbiamente richiede può essere condotto a diversi livelli: artistico, sociale, politico, interpersonale, estetico, semiotico… Ed io vorrei proprio evitare quelli bassi, quelli delle antipatie e simpatie, delle fazioni e, appunto, del gossip. E vorrei sorvolare anche sulla cronaca, senza naturalmente ignorarla. Le cose si devono sapere ma spesso l’eccesso di dettaglio ci smarrisce. Stare appresso alla dichiarazione di tizio e caio, di x o y, ci preclude la visione d’assieme. Ed io, invece, sono abituata a considerare i fatti come indicatori, sintomi o punte affioranti di profondi iceberg. E cosa c’è sotto?
C’è un controverso processo di crescita e, ad un tempo, di crisi della pratica fotografica da una parte. E, dall’altra, c’è la totale perdita di orientamento dei suoi fruitori, arricchiti e stressati contemporaneamente dalla enorme mole di immagini da cui sono ogni giorno raggiunti. Non è stata la transizione al digitale a produrre tutto questo; non da sola almeno. Quanto la struttura della comunicazione in rete e l’avvento dei social che hanno preso a picconate le vecchie emittenze, e ristrutturato l’informazione e la comunicazione, allargandone l’accesso ai non professionisti, cambiandone ritmi e linguaggi. Non è questa la sede per approfondire gli enormi vantaggi che tutto questo ha portato. Ma di certo, la sovrabbondanza di fotografie e video di cui possiamo disporre oggi, se da un lato ci ha reso questi linguaggi più vicini, familiari, dall’altro ce ne ha tolto la fame.
La fame, anche se è sempre descritta come una condizione di svantaggio, è anche un criterio ordinatore, capace di fornirci una scala di priorità. La fame, intrecciata con la relativa scarsità delle risorse, organizza e ottimizza le diete rendendole le migliori che sia possibile per il nostro sostentamento. Rimanendo nella metafora del cibo, la fame fa sì che il cibo sia la risposta a una esigenza. Mentre nelle società dell’abbondanza e del consumo l’assunzione del cibo si trasforma in un comportamento istantaneo, frammentato, edonistico e sganciato da un progetto nutrizionale: una risposta senza una domanda che, alla lunga, produce patologie e vere dipendenze. Oggi non abbiamo più quella fame di realtà e di mondo che dava senso alla fotografia; almeno all’idea di fotografia che è prevalsa dalla sua nascita fino agli anni Novanta dello scorso secolo. E alle professioni ad essa legate, alle sue eccellenze.
Qualcuno potrà subito obiettare che fin dagli esordi la fotografia non ha solo riportato brani di mondo ma con il suo sguardo ha reinterpretato e talvolta anche reinventato la realtà. Tuttavia, fino ad un certo punto, anche quando la fotografia ha argomentato sul mondo, lo ha fatto in un clima culturale affamato. Magari non più di una fame di primo grado ma di secondo: non di pane ma di reinterpretazioni gastronomiche. Ovvero non solo di fatti ma di visioni e confronti. Anzi in questo è stata bravissima perché straordinariamente capace di farci entrare nel relativismo culturale, nelle vite “altre”, nei molteplici stili, nelle differenti tradizioni. I social ne hanno meravigliosamente fatto un linguaggio diffuso, funzionale quindi non soltanto ai grandi dibattiti che animano l’opinione pubblica ma anche alla chiacchiera interpersonale.
Quando qualcosa entra nella vita di tutti fino a diventare strumento di scrittura anche della lista della spesa, come una lingua nativa, pienamente familiare, (quante volte si fotografa un prodotto per indicare a chi lo deve comprare precisamente qual è?), succede qualcosa di straordinariamente bello! Succede che da lì in poi tutti hanno potenzialmente accesso alla poesia, all’espressione più alta. Ma l’ubriacatura dovuta alla liberalizzazione dell’accesso alla poesia può dare la tentazione di scriverne senza una reale necessità. Solo perché si può. Petrarca è stato molto fortunato per il fatto che nel Trecento non ci fossero i social! Il problema, tuttavia, non sta nel fatto che tutti potenzialmente possano scrivere poesie, racconti, romanzi o fotografare…
Continua a leggere l’articolo su TP24
Lascia un commento