di Anna Fici
Pensieri del 9° giorno di #IoRestoaCasa
In questi lunghi giorni di reclusione domestica, più che mai stiamo attingendo a contenuti di varia natura (libri, musica, tv, home video) che un qualche autore ha prodotto. Dovremmo perciò essere più sensibili al tema che vado ad esporre. Forse anche più grati verso una figura, quella dell’Autore, che la rivoluzione digitale ha trattato male, per lo più. O sulla quale, nella migliore delle ipotesi, ha creato ambiguità.
Questo lungo articolo configge con le regole del web: testi brevi e semplici. Ma non è che per caso queste regole si possono sovvertire adesso, in un momento storico in cui tutto è sottosopra? Non è che quelle regole contengono una implicita sottovalutazione della curiosità culturale degli utenti? Della loro intelligenza e voglia di informarsi e prendere parte alle questioni più rilevanti?
E’ il momento a metterci davanti quanto il diritto d’Autore sia rilevante. Non tanto, o non soltanto in termini economici. Anche e soprattutto in termini di legittimo riconoscimento, legittima attribuzione di sensibilità, creatività, studio, professionalità.
Una riflessione di Anna Fici
Il nostro è un tempo caratterizzato da realtà duplici, ambivalenti e spesso contrapposte, da tendenze e controtendenze, la cui origine, a torto o a ragione, è frequentemente imputata ai media digitali e ai social.
Il senso comune etichetta molti dei comportamenti “on line” come espressione di narcisismo o di esibizionismo, facendo peraltro molta confusione fra i due. Questo rafforzerebbe il senso del processo di individualizzazione di cui parlano i sociologi contemporanei. Narcisi ed esibizionisti rappresenterebbero infatti dei “super individui” per i quali il bisogno di relazioni compiacenti e avallative, è funzionale all’auto-esaltazione, diventa di supporto alla loro auto-referenzialità. Dunque, in questa prospettiva, della relazione sociale rimane solo la forma, la buccia e l’altro diventa strumento della propria auto-costruzione. Quest’ultima crea un ponte con l’autorialità perché il narcisista/esibizionista usa la creatività per trarne quello che gli psicologi chiamano «approvvigionamento narcisistico»: consenso, legittimazione, ammirazione. Non a caso la personalità narcisistica è spesso associata allo stereotipo dell’artista bisognoso dell’applauso. Naturalmente si tratta di visioni semplificate che riducono drasticamente la complessità del reale.
Tuttavia, se questa descrizione afferra qualcosa di vero, qualcosa di assolutamente diverso, se non opposto, legittimamente le si affianca. Il riferimento è alla perdita o, per meglio dire alla rinuncia tardo-moderna alla “autorialità”, vista come un vecchio orpello che il tempo della condivisione rende inutile, priva di senso. Si pensi alle numerose provocazioni del Luther Blisset Project a partire dalla seconda metà degli anni Novanta e al concetto di «intelligenza collettiva» con il quale il filosofo francese Piere Lévy ha descritto il mutamento antropologico che il fenomeno del cyberspazio avrebbe favorito. Oggi, termini come «cyberspazio» sono già desueti ma l’arrivo dei social ha pienamente realizzato ciò che Lévy aveva preconizzato, rivelando anche numerosi effetti perversi o indesiderati. L’intelligenza collettiva, intesa come effetto emergente della condivisione e cooperazione, ha perso in questi ultimi anni quasi ogni slancio utopico, anche se ancora oggi qualcuno è disposto a lasciare in secondo piano l’io e a farsi «sardina». Qualcuno potrà ricordare come nei primi anni Novanta, anche in Italia si discutesse di un ritorno alla democrazia diretta per mezzo dell’elettronica, si lanciassero progetti di telematica civica come il progetto Iperbole e si esprimesse in vari modi la speranza che la Rete ci rendesse migliori. Nel tempo, l’ottimismo tecnologico è stato contrastato dal catastrofismo tecnologico. Intere generazioni – ovvero quelle dei digital divisi, degli esclusi – hanno vissuto un atteggiamento da «luddismo digitale», consistente nell’avversione a ciò che li riduceva di status e li marginalizzava. Qualcuno ha avanzato il sospetto che, piuttosto che di «intelligenza collettiva» bisognerebbe parlare di «stupidità collettiva». Solo il tempo distillerà l’esperienza digitale, tagliandole la testa e la coda, trovandone una descrizione che scavalchi la classica, oramai noiosa contrapposizione tra apocalittici e integrati.
Nel corso degli ultimi due secoli, il mito moderno dell’Artista e dunque dell’Autore, nelle sue varie declinazioni e soprattutto in quella del tardo Romanticismo che riprende ed esalta la figura del Vate, aveva attribuito a quest’ultimo doti straordinarie ed uniche, quasi di preveggenza, definendo la poetica come l’impronta digitale di un’anima. Creatività e unicità, univoca riconoscibilità in termini di stile e linguaggio, sono andati di pari passo per secoli, da quando, nel Rinascimento, l’Arte ha cominciato a rivendicare una maggiore autonomia rispetto all’artigianato delle scuole e delle botteghe. Definire cosa faccia “Autore” è diventato il compito di una nuova élite, ovvero della critica – un compito sicuramente arduo – e la dimensione intellettuale è via via prevalsa su quella dell’esecuzione materiale, della capacità artigiana di produrre opere di buona fattura. Il senso dell’opera d’Arte ha iniziato molto lentamente attraverso i secoli ad esternalizzarsi, ovvero a dipendere in varia misura dall’interpretazione critica che nel Novecento farà di questa nuova figura intellettuale quasi un coautore.
La nascita della fotografia ha prodotto un vero e proprio terremoto nell’ambito del dibattito sull’Arte e sull’autorialità. Superati tutti quei fattori tecnici che nei decenni immediatamente successivi alla presentazione di questa straordinaria invenzione all’Accademia delle Scienze (1839) ne facevano una pratica elitaria, intorno alla fine del XIX secolo, con la diffusione delle prime compatte Kodak, diventa una pratica diffusa e di grande successo.
Il sociologo Pierre Bourdieu (1930-2002) che, su committenza Kodak-Pathé, svolse un’indagine sugli usi sociali della fotografia pubblicata per la prima volta nel 1965, la definisce un’ “arte media”, capace cioè di mediare tra pratiche volgari e pratiche nobili. Diffusa già allora trasversalmente tra le varie classi sociali in virtù del suo essere “alla mano”, la fotografia è una pratica che «a differenza di attività culturali più esigenti, come il disegno, la pittura o la pratica di uno strumento musicale, a differenza persino della frequentazione dei musei o dell’ascolto ai concerti, non presuppone né la cultura trasmessa dalla Scuola, né il tirocinio e il mestiere che conferiscono pregio ai consumi e alle pratiche culturali comunemente ritenute più nobili» [Bourdieu 2004, p. 39].
Apparentemente, anche al tempo dell’analogico, la fotografia poteva essere praticata da persone comuni, che le si potevano accostare da autodidatta. Le cose non andavano diversamente dal punto di vista complementare, ovvero dal punto di vista del pubblico, dei fruitori della fotografia: sembrava, infatti, che non fosse richiesta nessuna particolare formazione per apprezzarla, come se essa godesse di una sorta di autoevidenza per la quale nemmeno l’analfabetismo poteva costituire un problema. (Anzi, nel mondo dell’informazione, la fotografia era stata accolta in pompa magna perché avrebbe avvicinato ai giornali anche chi non sapeva né leggere né scrivere). Come se si trattasse della rivelazione di un «inconscio ottico» [Benjamin 2001, p. 16, poi Krauss 2008] che della mediazione umana, con tutte le implicazioni del relativismo culturale che ad essa sono intrinsecamente connesse, può tranquillamente fare a meno.
Secondo questa prospettiva, oggi in parte superata, la Natura che si offre alle macchine non avrebbe altro autore che se stessa e attraverso la riproduzione meccanica svelerebbe anche di più di ciò che si può cogliere ad occhio nudo. La riproduzione fotografica attraverso l’ingrandimento dei dettagli consentirebbe la «scoperta» e per questo si renderebbe quasi necessaria all’atto conoscitivo. Si tratterebbe di una sorta di oggettivazione della realtà compiuta nel farsi cosa, cioè stampa. La trasformazione della realtà in immagini della realtà sarebbe dunque un passaggio necessario alla piena visione. Per vedere veramente bisogna posare lo sguardo sulle immagini del mondo e non direttamente sul mondo.
Lo abbiamo fatto. Lo abbiamo fatto fino al punto di non vedere più niente. Fino a soffocare nell’overload visivo che caratterizza la contemporaneità, scivolandoci dentro senza alcuna consapevolezza, con l’atteggiamento ludico che caratterizza gli usi sociali – o per meglio dire social – della fotografia oggi. Ci muoviamo tra una miriade di schegge riflettenti, incapaci di soffermarci su qualcosa e incapaci di ricomporre la visione d’insieme. La fotografia è diventata altro.
Mentre cercava un riscatto da questa fama di meccanicità e di mera applicazione scientifica a supporto dell’informazione e della conoscenza, mentre cercava di far dimenticare al mondo la condanna di Boudelaire attraverso mille espedienti creativi per i quali il referente reale si trasformava da palo della sua crocifissione a mera occasione espressiva, mentre gli Autori si palesavano e affermavano un loro linguaggio e una loro riconoscibilità in termini di temi e di stile, è arrivata l’informatica. E poi la telematica. E poi i media digitali. E in ultimo i social.
Chi ha vissuto, da fotografo, professionista o meno, a cavallo di tutto questo in alcuni casi è riuscito a serfare egregiamente tra i marosi; in altri è andato sotto o ha rischiato seriamente di annegare.
Ciò che ancora annaspa tra le onde è l’Autore. E non soltanto in fotografia. Esiste ancora? Esiste allo stesso modo? Ne è cambiato il concetto e il rispetto? Da Autori e di autorialità si può ancora vivere? Un caso….
Il fotografo Tony Gentile, oggi cinquantenne, si è trovato, all’età di ventotto anni nel 1992 a scattare la celebre foto che ritrae i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in un atteggiamento di grande complicità, durante un incontro pubblico, appena qualche mese prima delle due stragi. Con un anticipo di dodici anni rispetto alla nascita di Facebook ad Harvard e di sedici anni dalla diffusione della versione italiana di questo social network, si è ritrovato, suo malgrado, autore della prima foto social della Storia. Perché a prescindere dalla nascita del concetto stesso di «social network», ancora lontana a venire, il destino di quella foto è stato un destino virale. Tanto che l’Autore ne è stato totalmente fagocitato. Molti non sapevano di chi fosse – e magari non lo sanno ancora – e molti altri conoscono Tony solo per quella foto e ignorano il resto della sua produzione, la sua intera vita professionale che ha attraversato anche l’agenzia di stampa Reuters, portandolo, come fotografo, al centro della scena mondiale.
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