In collaborazione, redatto e pubblicato da Doog Reporter
Kenya, Rombo Manyatta
L’Africa cambia.
È forse una banalità sostenere che nessun posto al mondo offre tanto (a chi è disposto a ricevere), ma questo è puntualmente vero, in ogni circostanza, nei colori della sua natura selvaggia, nelle fragranze degli aromi nei mercati, nell’umanità delle persone.
È stato l’ultimo punto a farmi tornare, quell’umanità priva di infrastrutture che si può ancora trovare fuori dalle grandi città.
L’Africa l’ho conosciuta per la prima volta nel 2014, quando decisi di visitare la stupefacente, grandiosa area a nord della Tanzania, con i suoi parchi infiniti; delle due settimane trascorse lì, i venti minuti più significativi furono però quelli dedicati a visitare un minuscolo villaggio Masai al centro del cratere di Ngorongoro, un fuori programma proposto dal nostro autista che conosceva il capo villaggio. La seppur breve visita mi colpì profondamente: non scattai nemmeno una foto.
Ci fu un momento in cui ci andai vicino, una ragazzina di circa dieci anni usciva da una piccola capanna di fango e vedendomi prese un’espressione mista tra curiosità e spavento, si soffermò a fissarmi nella penombra dalla capanna da cui usciva portandosi una mano alla bocca con fare pensieroso, un momento perfetto (e una foto, forse), pronta, regalatami così senza alcuno sforzo. Non riuscii a scattare, rimanendo inebetito a fissare la scena finché il capo villaggio che aveva proseguito a camminare si accorse che ero rimasto indietro e mi chiamò facendomi cenno di seguirlo.
Fu quello il momento in cui decisi di tornare. Mi ricordo, risalendo sulla jeep, che pensai esattamente “io qui ci ritorno”. Avevo una gran voglia di raccontare questo popolo, ma da dentro. Volevo sapere cosa significava vivere nella savana in quelle capanne. Volevo conoscerne la quotidianità.
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