In collaborazione, redatto e pubblicato da Immagine Persistente
Verso la metà dell’Ottocento prese a diffondersi un movimento, noto come pittorialismo, che voleva elevare la fotografia a forma d’arte.
Autori come Gustave Le Gray, Oscar G. Rejlander o Henry P. Robinson iniziarono così a sperimentare nuove tecniche che oggi chiameremmo fotomontaggio e che all’epoca vennero battezzate fotografie composite.
Questo procedimento fu usato da Le Gray per alcune vedute marine con l’intenzione di dare risalto ai cieli che apparivano di un grigio troppo pallido: le emulsioni di quell’epoca difatti erano sensibili alla sola luce blu, e quanto di quel colore risultava così quasi bianco.
Questa tecnica venne poi portata all’estremo da Rejlander – che arrivò a fondere insieme fino a trenta negative – e da Robinson con scene allegoriche che inizialmente vennero accolte con entusiasmo dal gusto vittoriano dell’epoca ma che presto si scontrarono anche con una critica piuttosto feroce: «Guardatela attentamente per un minuto – scriveva un critico a proposito di una nota composizione di Robinson – e tutta la realtà svanirà via via che il trucco attirerà sempre più l’attenzione.»

Rejilnader fu un fotografo molto apprezzato nell’epoca vittoriana. Le sue fotografie di taglio allegorico vennero realizzate fotografando separatamente lo sfondo e ogni singolo modello. La stampa finale fu poi composta a partire da oltre trenta negative.
Paradossalmente il photo compositing, dimenticato per quasi un secolo e mezzo, è tornato in auge ai giorni nostri, grazie alle tecniche di post-produzione digitali come ad esempio la moda del momento: la fotografia astronomica.
Questo genere ha per scopo quello di imprimere la sfera celeste e si scontra con alcuni limiti fisici: la rotazione terrestre obbliga infatti a scattare con tempi di posa non troppo lunghi, poiché altrimenti i punti luminosi delle stelle verrebbero rappresentati come scie di luce.
Così il risultato è che se si espone per il cielo, i paesaggi terrestri appaiono troppo scuri; si rende quindi necessario esporre più scatti da montare poi insieme.
Però una volta scoperto il trucco passare dalla fotografia astronomica ad una composizione in cui l’effetto diventa un gioco fine a se stesso il passo è breve, e tolta la sorpresa non resta altro.
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Sergio Marcelli
Sergio Marcelli nasce ad Ancona nel 1971. Amante delle arti visive, si avvicina alla fotografia sin da bambino per approfondirla – dopo la maturità – con corso di visual design. Predilige il ritratto in studio, sperimenta l’uso della luce artificiale, lavora in medio o grande formato. Contemporaneamente si accosta all’audiovisivo, scoprendo una passione per il formato super 8. Appena ventiseienne inizia la carriera da insegnante, prima per una scuola di cinema promossa dalla Mediateca delle Marche, poi come docente di fotografia dell’Accademia Poliarte, dove resta fino al 2017. Nel 2000 si trasferisce a Berlino; qui entra in contatto del mondo artistico e realizza il suo primo cortometraggio che presenterà, nel 2007, al Festival Miden, in Grecia. Tornato in Italia nel 2004, lavora come fotografo commerciale pur continuando l’attività artistica e di ricerca. L’esperienza maturata gli permette di pubblicare, nel 2016 per Hoepli Editore, il Trattato fondamentale di fotografia, un manuale accolto con entusiasmo dal pubblico e adottato da diverse scuole di fotografica. L’anno successivo inizia la realizzazione di un documentario biografico prodotto da LaDoc Film di Napoli e centrato sulla figura del musicista FM Einheit. Nello stesso periodo diventa coordinatore dei corsi video del Marche Music College di Senigallia. Il suo lavoro di ricerca è presentato alla IX Edizione di Fotografia – Festival internazionale di Roma (2010) ed in diverse città italiane ed europee attraverso esposizioni personali e collettive. Di lui hanno scritto: G. Bonomi, C. Canali, K. Hausel, G. Perretta, G. R. Manzoni, M. R. Montagnani, e G. Tinti.
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