Fotografie di Giuseppe Valerio Scandiffio
Testo di Francesco G. Raganato
Redatto e pubblicato da Perimetro

“Siamo cresciuti in un contesto che ci ha permesso di dare per scontate molte cose. La pandemia ci ha dato modo di riflettere su quello che abbiamo e su cosa ci manca. Abbiamo dovuto adattarci e costruire dei nuovi rapporti con i nostri spazi.” Saluen.
Fino ad un anno fa la felicità non si misurava in metri quadri.
Improvvisamente, da quando il Covid ci è esploso addosso, abbiamo riscoperto quei pochi metri quadri abbandonati o sconosciuti delle nostre case.
Qui si tratta di fortuna, eredità o fato, beninteso.
Stiamo parlando dei balconi.
I balconi di Milano non sono come quelli di Napoli o Palermo dove invece sono propaggini organiche alla casa, una protuberanza tra il privato e il pubblico, tra il salotto e la via, dove si intessono conversazioni, si calano panieri con le corde, si ricamano pettegolezzi e si stendono i panni assieme al compare del balcone di fronte.
A Milano i balconi sono sempre stati spazi non vissuti, un vezzo architettonico, un fregio urbanistico.
Sempre vuoti.
Fino ad un anno fa.
Poi timidamente si sono animati: un libro letto al sole, l’acqua alle piante o semplicemente una boccata d’aria incredibilmente profumata.
Chi durante il lockdown ha scoperto di possedere un balcone ha capito di essere un privilegiato.
Ha scoperto che tra le mura di casa e la città, tra le videochiamate e la solitudine, esiste uno spazio intermedio, fatto di prossimità, spesso snobbato per il suo essere appunto medio, né troppo lontano, né troppo vicino.
Eppure a molti ha salvato la vita.

“Le case di ringhiera sono state la salvezza per molti milanesi. Qui abbiamo internet in commune, I muri sottili e mangiamo spesso insieme. Durante il primo lockdown vivevamo praticamente insieme: aprivi la porta e vedevi face amiche.” Marta.
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