Cosa si può dire oggi che non sia già stato detto? Cosa si può fotografare senza che un soggetto non renda un po’ un senso di “già visto”, “già percepito”.
E cosa sono le percezioni, perché esse cambiano così tanto in base alle condizioni di vita?
Sto mettendo tutto in discussione, dall’Abc del mio linguaggio visivo alla ricerca, dal processo di progettazione al mio essere, si può dire, ossessionato dalla “cronaca”, da quella volontà costante, coercitiva, quasi patologica, di raccontare i fatti. E questo mi sta facendo tornare indietro. Ma non è un’involuzione, non sto perdendo, per così dire, “poteri”. Anzi. Sto decisamente recuperando la fantasia.
Perché oggi sento l’esigenza di scrivere queste riflessioni, proprio dopo un po’ di giorni di reclusione, dopo aver perso quel rapporto costante con l’altro, dopo essere tornato a riflettere sull’io. Ho già dato la risposta.
Il periodo che stiamo vivendo, drammaticamente, rappresenta senza dubbio un punto di svolta per molti popoli. Si stanno creando nuove sinergie, nuovi ponti, nuove collaborazioni. Ma al contempo si sta consumando una vera e propria tragedia. E questo è noto. Questo dramma agisce notevolmente su di me, e da una parte (rispettando le regole per il bene dei miei cari) sento il peso della limitazione, il blocco, l’isolamento.
Vorrei essere lì dove c’è bisogno, ma so che in questo momento il mio posto è questo, al fianco della mia famiglia, pur dovendo costantemente sopportare il peso del distacco da altre persone che amo. Il dolore del mondo che piange, dunque, si mischia al mio. E produce qualcosa, sposta degli equilibri, liberando delle energie che credevo estinte. Si è aperto un canale, chiuso da tempo, più creativo, più collegato al sogno e al desiderio, meno attaccato al tempo e allo spazio, più astratto. E questo rappresenta una sfida. Una sfida che sto cercando di portare avanti con un discreto grado di moderazione visto il momento storico.
Per ora, infatti, non ho ancora ceduto totalmente. Sto lavorando su queste nuove (vecchie) sensazioni, ma senza perdere il mio “ultimo” occhio. Per questo sto documentando l’isolamento come avrei fatto fino a pochi mesi fa, partendo dai fatti, dalle storie, cercando di glorificare la luce. Ma sento dentro di me crescente l’attenzione verso la materia e verso le superfici. E non succedeva da anni. Tanti anni, chi l’avrebbe mai detto.
Ci sarà una rinascita dopo tutto questo, e non sarà facile, come non lo è per nessun essere che abbandona il grembo materno per venire alla luce. Ci sarà forse da patire, da gioire, da sudare, da riflettere, si tornerà ad amare, a camminare, a consumare la gola cantando, a prendere la pioggia, e a piangere perdendosi tra i vicoli di una città sconosciuta. Affido i miei pensieri alle parole, ora, perché sento l’esigenza di fare una sorta di testamento. Perché questo mi connette in modo diretto a tutti, nessuno escluso.
Perché ora più che mai capisco quanto valga una vita, e quanto sia importante raccontare la propria e quella degli altri. In ogni modo, a metà strada tra creatività e cattività.
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