Il fenomeno ALPA ha occupato circa cinquant’anni della storia dei costruttori di fotocamere sopravvivendo per oltre un decennio alle aziende europee, in particolare tedesche, che dovettero rinunciare, per scelta o per debacle, alla propria presenza sul mercato.
Durante la preparazione degli articoli che ho dedicato al marchio ALPA, in particolare al vasto repertorio degli apparecchi reflex 35mm, ho avuto modo di visionare materiale e confrontarmi con appassionati del marchio traendone una convinzione: per quanto arretrate, con una meccanica apparentemente complicata e con forme assolutamente singolari, questi apparecchi hanno un fascino particolare in parte dovuto alla loro atipicità ed in parte alle innegabili caratteristiche qualitative riscontrabili nei materiali impiegati, nella costruzione e, non da ultimo, nel parco ottico di assoluta qualità a partire dalla serie Switar delle ottiche standard prodotte dalla Kern di Aarau.
Nell’ambito dei contatti che ho avuto, devo certamente ringraziare Marco Barretta grande appassionato e competente del marchio svizzero che non solo mi ha inviato copia del materiale da lui raccolto negli anni, ma mi ha anche segnalato, nell’ambito delle sue conoscenze, il nominativo di Alessandro Farella di Foto Prisma a Bologna che ha trattato a lungo il marchio ALPA ed è stato testimone diretto degli ultimi anni di attività dell’azienda fino alla chiusura definitiva avvenuta nel 1989.
Nel periodo dei primi contatti con Marco, mi capitò di recuperare, quasi per caso, un’ALPA 6c in finitura nera del 1961 davvero malconcia e con alcune parti mancanti. Questo modello fu prodotto, in questa versione, in 546 esemplari tra il 1960 ed il 1967 e ciò, unitamente al fatto che la fotocamera fosse ancora funzionante, mi spinse ad interessarmi per tentare il recupero di ciò che era andato perduto, in particolare la leva di ricarica.

esemplare dell’ALPA 6c recuperata e restaurata; una fotocamera simile fu utilizzata da David Douglas Duncan per il colossale lavoro di riproduzione di circa cinquecento opere di Pablo Picasso custodite nella villa del pittore nei pressi di Cannes, all’esperienza di Duncan ho dedicato questo articolo
Dopo una serie di tentativi a vuoto, mi rivolsi ad Alessandro Farella che mi consegnò, in negozio a Bologna, un sacchettino con tutte la parti, compresa la leva di ricarica, così come il magazziniere di ALPA, Maurice, aveva più volte a suo tempo fatto con lui, nel corso delle visite a Ballaigues.

particolare della leva di ricarica dell’ALPA 6c, composta da ben sei parti
L’incontro a Bologna, al volo nel corso di una pausa pranzo, terminò con l’impegno di rivedersi con più calma per una chiacchierata sugli anni della sua frequentazione di ALPA.
Da questo secondo incontro, ne è derivata l’intervista contenuta in questo articolo.
Avevo inizialmente pensato di proporne solo le parti salienti.
Ho invece deciso di pubblicare la versione pressoché integrale per consentire a coloro che vorranno visionarla sino alla fine, di cogliere il gran numero di contributi forniti da Alessandro, non solo sulla storia di ALPA ma anche sullo sviluppo in Italia del mercato dell’usato fotografico in particolare quello da collezione che prese il via dalla fine degli anni ’70.
Trovo molto interessanti alcuni passaggi dell’incontro/intervista, e spero che questo mio sentimento sia condiviso.
Ne evidenzio di seguito alcuni tra quelli che più hanno acceso la mia curiosità.
In prima battuta vi è il quadro che emerge rispetto ai motivi che fecero sopravvivere il marchio ALPA oltre la soglia degli anni ’80, pur con l’immagine di arretratezza che davano gli apparecchi rispetto ai modelli reflex 35mm in voga al momento.
In quel decennio vi fu una decisa evoluzione dei sistemi autofocus e degli automatismi, tale da far emergere, come sottolinea anche Alessandro nell’intervista, alcune caratteristiche un po’ retrò come valore aggiunto in un’epoca di esasperata modernità.
Le fotocamere ALPA presentate al pubblico di potenziali acquirenti nelle giusta prospettiva, godettero nella seconda metà degli anni ’80 di un discreto successo nell’ambito dell’attività commerciale di Foto Prisma, tanto da attirare l’attenzione del Direttore Commerciale della casa svizzera.
Un altro aspetto interessante è riferito alla conta degli esemplari di Macro Switar III prodotti nella seconda metà degli anni ’80, per intenderci quelli con passo a vite 42×1 che venivano montati, tramite un anello adattatore, sugli esemplari di 11si prodotti negli ultimi anni.
Questo sfata il mito di un’ottica considerata rarissima, peraltro prodotta con un barilotto di derivazione giapponese e lenti fornite ancora da Kern.

il Macro Switar terza serie, proprio la sua derivazione ibrida, fa perdere il sistema di indicazione della profondità di campo, denominato Scala Visifocus, tipico delle ottiche Kern, oltre ad introdurre finiture e materiali meno curati rispetto alle prime due serie prodotte ad Aarau
Un ultimo aspetto che voglio sottolineare riguarda le fotocamere trovate da Alessandro nei cassetti della sede di Ballaigues durante la fase di liquidazione dell’azienda avvenuta successivamente al 1989.
Tra queste una Rectaflex che presenta alcune similitudini rispetto alla serie ALPA reflex degli anni ’50 quali il sistema di sollevamento dello specchio piuttosto che lo stigmometro inclinato a 45 gradi nel mirino.
Per capire se anche dal punto di vista meccanico fossero state adottate soluzioni simili, occorrerebbe smontare entrambe le macchine e, credo, non ne valga la pena.
Di certo, e qui occorre sfatare un altro falso mito, le reflex ALPA, a differenza delle Rectaflex non adottarono il meccanismo ritardatore montato su rubini.

confronto tra due modelli grossomodo coetanei; le ALPA saranno sempre caratterizzate da un tiraggio del corpo molto ridotto che consente di montare qualsiasi tipo di ottica per reflex 35 mm tramite appositi anelli adattatori, le Rectaflex, di contro, da una più ampia e robusta baionetta; in entrambi i casi è ben presente il principio di consentire l’utilizzo di un ampio parco di ottiche
Da non trascurare che ALPA e Rectaflex si contesero alla fine degli anni ’40 con la Contax S il primato nell’adozione del pentaprisma per la corretta visione reflex.
Mi chiedo in quale misura il contenuto innovativo delle Rectaflex e l’instancabile attività dell’Avv. Corsi, abbiano in qualche modo ispirato il salto qualitativo che ALPA fece con la presentazione dei nuovi modelli ad inizio anni ’50.
Per quanto, a mio giudizio, il vero filone innovativo proseguì per ALPA solo fino ad inizio anni ’60 con la presentazione del modello 9d, tra le prime fotocamere reflex 35mm ad introdurre il sistema di lettura esposimetrica TTL, traguardo questo che nulla ha a che vedere con quanto nel frattempo ideato dall’Avv. Telemaco Corsi e purtroppo mai implementato nella produzione di serie Rectaflex che, come sappiamo, non superò la soglia della prima metà degli anni ’50.

immagine tratta da un’intervista apparsa su un numero della Rivista Fotografare del 1969 nella quale l’Avv. Corsi mostra il sistema di messa a fuoco assistito che aveva ideato anni prima e mai coperto da brevetto. Nel 1968, una nota azienda produsse una cinepresa Super8 con lo stesso sistema
Vi auguro una buona visione e ringrazio ancora Alessandro per la pazienza e l’affabilità con la quale mi ha sin dall’inizio accolto e raccontato la sua esperienza.
Max Terzi
maxterzi64@gmail.com

durante il nostro incontro Alessandro aveva con sé una Bolsey B2; questa macchina fu prodotta nel secondo dopoguerra negli Stati Uniti dalla Bolsey Corporation of America di proprietà di Jaques Bogopolsky, al secolo Jaques Bolsey. Questi aveva realizzato negli anni ’30 in Svizzera la reflex 35mm BOLCA il cui progetto venne successivamente acquisito dalla Pignon e diede origine, all’inizio degli anni ’40, alla prima serie di apparecchi ALPA reflex; alcuni esemplari a marchio Bolsey furono realizzati a Ballaigues, destinati all’esportazione americana e distribuiti dalla Bolsey Corporation stessa. Alla figura di Bogopolsky e alle Bolsey ho dedicato questi articoli

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