Paolo Simonazzi. Terra, memoria, futuro.

Come si incontra un autore, come ci si tara rispetto ai reciproci percorsi, in che modo il mio lavoro si plasma su una traiettoria composita? Un’intervista è anzitutto una formula per entrare in simbiosi con l’autore. Certo, è fondamentale porgli delle domande che siano piene di cura perché costruite sulla base di un ragionamento sul suo linguaggio, sull’evoluzione del suo pensiero.

 

Uno scatto del progetto “Circo Bidone” (1999-2001).

 

Ero a lavoro al Mupac per il festival ColornoPhotoLife, nel mese di ottobre 2020 quando, la fotografa emiliana Antonella Monzoni mi ferma per un saluto e per presentarmi un autore, il cui lavoro secondo lei poteva essere in sintonia col mio modo di concepire la fotografia. Ebbene, aveva ragione! Ho trovato i progetti di Paolo Simonazzi fortemente ispirati dalle sue radici eppure ritengo che sia un “gentiluomo emiliano dall’animo rivoluzionario”. Di sicuro è un attento “ascoltatore” delle voci dei maestri nati nella sua terra, ha la via Emilia negli occhi e, inevitabilmente, anche nelle sue fotografie.

 

Uno scatto tratto dal progetto “La casa degli angeli” (2006).

 

Per tutte queste ragioni ho deciso di intervistarlo su TAKE CARE of per raccontare la storia di un incontro curatore-autore, ma soprattutto per conoscere più a fondo il lavoro e dare spazio alle riflessioni del fotografo emiliano Paolo Simonazzi, al quale lascio la parola.

 

Cosa è la “confusione creativa” secondo te?

Si tratta di una condizione, un po’ complicata da definirsi a parole, in cui secondo me gli elementi che ne fanno parte, se presi singolarmente, non hanno alcuna apparente attinenza l’uno con l’altro. Eppure, assemblati, creano una sorprendente, eccentrica armonia. Il mio progetto Cose Ritrovate è una testimonianza convincente di tale condizione.

 

Un’altra immagine tratta dal progetto “La casa degli angeli” (2006) di Paolo Simonazzi.

 

Cosa vuoi dire con la fotografia e cosa vuoi che “lei” dica di te?

Il mio pensiero desiderante è quello di avere la capacità di narrare storie e, attraverso le storie narrate, di poter “lasciare una traccia del mio passaggio”, citazione di Franco Vaccari che ho scelto di pubblicare insieme a una fotografia del mio libro So near, so far.

 

Uno scatto del progetto “Mondo piccolo” (2006-2010).

 

Nei tuoi lavori, il paesaggio non ha solo una dimensione geografica, ma anche mentale. Quali sono le tue mappe?

Le mie mappe, come probabilmente quelle di tutti noi, hanno connotati di tipo geografico e sentimentale. La Provincia rappresenta il punto di incontro privilegiato di questi due elementi. Vorrei allora ricordare due pensieri, rispettivamente quelli di Gianni Celati e di Luigi Ghirri, i cui insegnamenti continuano a essere per me linfa vitale:

  • “Be’ la provincia, prima di tutto non è un luogo ben definito, ma una categoria dello spirito.
  • La Provincia è il luogo per antonomasia, mescolanza di affetto e ripulsa, luogo dove si incrociano odio e amore, il tutto e il nulla, la noia e l’eccitazione”.

 

 

 

Per te la fotografia è un punto d’approdo, ma non necessariamente quello di partenza. Dove trovi la tua ispirazione?

Suggestioni e percezioni sono le sostanze nutritive fondamentali alle quali attinge la mia ispirazione. Letteratura, cinema, musica cosiddetta leggera (soprattutto), ma anche più banalmente, come nel caso di Bell’Italia, un’insegna stradale. La fotografa Sarah Moon sottolinea che “L’occhio sente prima di vedere, e questa affermazione a me sembra tutt’altro che banale.

 

 

Segni e sogni della terra emiliana, la tua. Parlaci di So near, so far.

Questo progetto vede la luce come esposizione nel 2016 presso la prestigiosa Collezione Maramotti, in occasione dell’undicesima edizione del Festival Fotografia Europea, La via Emilia. Strade, viaggi, confini, dedicata ai trent’anni del progetto di Luigi Ghirri, Esplorazioni sulla Via Emilia. Per la mia mostra è stato fondamentale il supporto dell’allora Direttrice della Collezione Maramotti, Marina Dacci. Sua fu anche l’idea originale e per me del tutto innovativa di esporre le 51 fotografie – 29 delle quali inedite, tutte appartenenti ai progetti realizzati nel corso degli anni in Emilia Romagna – in orizzontale, su un supporto che potesse ricordare il selciato della strada. “E non c’è niente che la strada non possa curare”: riprendo qui la frase del cantautore e poeta statunitense Conor Oberst che la curatrice Gina Costa scelse di apporre in calce al suo prezioso testo critico. Il libro, realizzato con la struttura di un leporello, come rimando indiretto al modello espositivo, è stato poi pubblicato da Danilo Montanari editore due anni dopo, nel 2018, con ulteriori fondamentali partecipazioni.

 

La copertina del libro, in formato leporello, in cui il fotografo emiliano Paolo Simonazzi ha raccolto le immagini del suo progetto “So near so far” (Danilo Montanari Editore).

 

In Cose ritrovate, invece, raccogli frammenti della quotidianità e li ricomponi in un reale fotografico voluto dal tuo sguardo. Come hai “ritrovato” questi oggetti?

La genesi di Cose ritrovate, come peraltro spesso è accaduto per altre mie ricerche, è stata alquanto elaborata, per non dire tribolata. L’impulso creativo in questo caso è stato originato dal romanzo di Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici al quale Federico Fellini si era ispirato per quello che poi fu il suo ultimo film, La voce della luna.

 

La copertina del progetto editoriale “Cose ritrovate” (Marsilio Editore).

 


Il percorso del progetto però ha poi subito una variazione proposta dallo stesso Cavazzoni, che denota una straordinaria onestà intellettuale di questo autore. Ci racconti cosa è successo?

Quando ebbe modo di vedere una prima selezione del progetto, Cavazzoni mi fece presente che il riferimento letterario di questa ricerca doveva essere secondo lui un altro testo, ossia La fondazione, l’ultimo lascito grande poeta romagnolo Raffaello Baldini, scomparso nel 2005. La lettura di questo breve e intenso poema letterario, pubblicato da Einaudi, è stata una vera e propria folgorazione, una straordinaria epifania. Il protagonista, infatti, è un personaggio bizzarro che colleziona ossessivamente i più assurdi oggetti del passato, preso dall’idea di dar vita a una Fondazione che tenga viva la memoria delle cose più sfuggenti. Una volta individuato il percorso più appropriato non è poi stata così difficile – incredibile ma vero – la ricerca degli eccentrici personaggi con le loro inconsuete e strampalate cose accumulate. Il titolo Cose Ritrovate è stato scelto da Denis Curti, che con passione, grande professionalità e pazienza ha seguito l’intero sviluppo del progetto.

 

Un’immagine tratta dal progetto “So near so far” (1998-2014).

 

Nelle tue pubblicazioni sono differenti i formati, le soluzioni estetiche e strutturali, le case editrici. Raccontaci.

Collegandomi indirettamente a quanto detto poc’anzi, per le soluzioni formali ed editoriali delle mie pubblicazioni mi sono costantemente affidato ai curatori che mi hanno accompagnato nei vari progetti. Da parte mia ho sempre seguito con attenzione la produzione, cercando di evitare o comunque limitare gli errori e le cosiddette “sbavature”. In attesa del libro perfetto…

 

Un’altra immagine tratta da “So near so far” (1998-2014).

 

Giacché hai sollevato la questione, qual è la tua idea di libro perfetto?

Il libro nel quale tutti gli ingredienti, dosati nella giusta misura, contribuiscono a creare un prodotto di qualità ineccepibile. Sembra facile…

 

 

Eppure non lo è affatto! Parliamo ora delle “radici” del tuo pensiero fotografico.

La casa sul confine dei ricordi…”, una citazione in ambito musicale di un cantautore della mia terra non poteva mancare. E che autore! Parlo di Francesco Guccini e del suo lavoro Radici. Mio padre mi ha trasmesso l’imprinting fotografico facendomi dono delle prime macchine fotografiche, una Kodak Instamatic, poi la sua Voigtländer. Per i 18 anni, se ricordo bene, ricevetti la prima reflex a ottiche intercambiabili, una Canon A1. Poi, durante gli anni del corso di laurea in Medicina ho proseguito il mio percorso di avvicinamento alla fotografia con alcuni corsi di apprendimento serale, la frequentazione di circoli fotografici e una graduale presa di coscienza del fatto di essere capace a sviluppare un mio linguaggio espressivo. Anche alcuni incontri sono stati fondamentali.

Ho dedicato molto più tempo a visitare mostre e visionare libri dei fotografi più ammirati che non a studiare le evoluzioni tecnologiche della fotografia, tanto che non mi sono ancora deciso a passare definitivamente al digitale. Ci tengo a precisare però che non è una questione ideologica, molto più semplicemente è una sorta di indolenza mentale che mi impedisce di abbandonare abitudini e affetti consolidati. Sono innumerevoli i fotografi il cui lavoro è encomiabile, fin troppo facile sarebbe elencare quelli che hanno determinato influenze fondamentali sul mio approccio stilistico.

 

Uno scatto proveniente dal progetto “Mantova-Cuba” (2015-2016).

 

Nella tua risposta precedente parli di “incontro fondamentali”. Quali sono stati?

Nel quaderno delle firme della mia seconda mostra fotografica nel novembre 1995 a Guastalla (RE) trovo questo commento: Caro Paolo, sono rimasto colpito dal cammino che hai fatto in senso professionale. Qui di amatoriale non esiste più nulla, quindi aspettati molte critiche e pochi elogi! Il mio, però, è assolutamente sincero. Hai fatto un ottimo lavoro. Ora tutti i “fotoamatori” ti penseranno perduto per sempre. Io ti attendo alla prossima esposizione. Dopo questo enunciato devi, almeno, rimanere allo stesso livello. Sono strade, queste, a senso unico. Con affetto e stima, Vasco Ascolini. Un commento, questo del grande fotografo emiliano, che ha rappresentato per me la spinta decisiva per iniziare a pensare di poter, per così dire, cambiare passo.

Un secondo momento di fondamentale importanza è stato, una decina di anni dopo, l’incontro con la curatrice Angela Madesani che ha reso possibile a un pensiero desiderante di trasformarsi in un progetto espositivo ed editoriale importante. Mi riferisco al mio Tra la via Emilia e il West. Si sa che i tempi poi cambiano e così anche le strade che si percorrono, ma la riconoscenza continua a rimanere per me un valore importante.

 

Un’altra immagine tratta dal progetto “Mantova-Cuba” (2015-2016).

 

L’uomo si vede raramente ma c’è sempre. Che vuol dire quest’affermazione se applicata alle tue fotografie?

Indipendentemente dal fatto che le persone siano o meno fisicamente rappresentate, ritengo, per quanto le classificazioni siano sempre riduttive, che le mie ricerche fotografiche possano definirsi umanistiche, con un sentimento di fondo sospeso tra empatia e dissacrazione. L’aver frequentato il liceo classico ha avuto molto un ruolo rilevante nel plasmare i miei interessi e la mia sensibilità. …E vivo la mia vita a passo d’uomo/altro passo non conosco/soltanto questo passo d’uomo/”. Questo omaggio al mio autore prediletto, Francesco De Gregori, credo possa rappresentare davvero bene tale attitudine.

 

Chiudiamo questa carrellata sui progetti fotografici realizzati da Paolo Simonazzi con questa immagine, anch’essa tratta dal progetto “Mantova-Cuba” (2015-2016).

 

Quale lavoro ti somiglia di più?

Il grande letterato Jorge Luis Borges racconta di un pittore che, nel descrivere paesaggi, monti, fiumi, alberi, alla fine si accorge di aver dipinto il proprio autoritratto. Bene, io alla stessa maniera potrei risponderti che tutti i miei lavori mi somigliano se messi in relazione alle fasi della vita in cui sono stati realizzati. Però, se alla conclusione di questa stimolante intervista posso farti una confidenza, Tra la via Emilia e il West è, per molteplici ragioni, il lavoro a cui mi sento più affezionato. Non dirlo però agli altri, mi raccomando…

 

Un ritratto di Paolo Simonazzi. ©Chiara Fossati

 

BIOGRAFIA Paolo Simonazzi

Paolo Simonazzi è nato a Reggio Emilia nel 1961. Ha partecipato a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero, ha pubblicato diversi volumi fotografici e sue immagini sono conservate in importanti collezioni di istituzioni, musei e private. Le sue fotografie sono ambientate in luoghi imprevedibili nei quali le cose “appaiono” inaspettatamente in quelle strade laterali dove il limite tra reale e surreale risulta sfumato.

Quelle di Simonazzi sono fotografie che mostrano luoghi reali, ricordati o semplicemente immaginati e che riescono spesso a fare sorridere per la loro ironia e l’ingenua naturalezza.

L’autore ama cogliere il paradosso come guida primaria del suo fotografare. In questo modo e grazie all’insegnamento di grandi e riconoscibili maestri, l’ordinario è capace di elevarsi a straordinario. Fra i molti progetti di Paolo Simonazzi ricordiamo: Circo Bidone (Zoolibri, 2003), uno dei suoi primi lavori, racconta di un piccolo circo sopravvissuto all’epoca della multimedialità e degli effetti speciali. Dal 2006 al 2010 si è dedicato a Mondo piccolo, un lavoro alla riscoperta delle terre care a Guareschi. Nel 2006 si è avvicinato al tema del disagio sociale con il progetto La casa degli angeli. Tra la Via Emilia e il West (Baldini Castoldi Dalai, 2007) è invece un progetto che illustra la pacifica penetrazione dell’iconografia americana nel paesaggio culturale e architettonico della regione Emilia-Romagna, esposto a Villa delle Rose – MAMbo, Bologna (2007), a New York e San Francisco. Nel 2014, per la IX edizione di Fotografia Europea, presenta la mostra Cose ritrovate, un viaggio visionario ispirato ai testi letterari di Ermanno Cavazzoni e di Raffaello Baldini (Marsilio, 2014). Il progetto Bell’Italia (Silvana Editoriale, 2014) è stato presentato in anteprima a Fotografia Europea 2011, poi a Sydney, Melbourne (2012), Tokyo (2014) e Mosca (2016). Nel 2015 presenta a Torino un’anteprima del progetto Icons of Liscio (Guaraldi- LAB, 2019), ispirato alla fascinazione dei manifesti iconici delle orchestre da ballo in Emilia-Romagna. Mantua, Cuba (Greta’s Books, 2016), è una ricerca sentimentale che ha come luogo d’indagine una cittadina di provincia ai confini dell’isola di Cuba. So near, so far (Danilo Montanari, 2018), è un’originale rilettura dei suoi progetti principali che guardano alla propria terra d’origine. La Terra, L’Emilia, la Luna, presentata alla Galleria Romberg di Latina nel Febbraio 2020, è una summa dei progetti del fotografo.

paolosimonazzi.com

 

 

 

 

Loredana De Pace è giornalista pubblicista, curatrice indipendente e docente. Founder dello Studio CAOS, curatela ed editing (via Puglia, 15 – Monza). È autrice del saggio TUTTO PER UNA RAGIONE. Dieci riflessioni sulla fotografia (emuse, 2017). Dal 2004 scrive per il magazine FOTO Cult Tecnica e Cultura della Fotografia. È editor per i festival di visual narrative Cortona On The Move e per Yeast Photo Festival. È curatrice per il festival di fotografia ColornoPhotoLife. Si occupa della rubrica TAKE CARE of ed è una delle lettrici dell’iniziativa NON CHIAMATELE LETTURE di NOCSensei. È coach su Photocoach.it e collabora con l’associazione culturale NESSUNO[Press]. Ha curato numerosi libri e fanzine, fra cui la monografia MONDI UMANI di Gigi Montali (Corsiero editore), Promenade. Pathos e ironia in costume di Carlo Traini (Crowdbooks) e la fanzine 365 di Jill Vande Wiele. È curatrice di esposizioni fotografiche in Italia e all’estero, partecipa a giurie di premi nazionali e internazionali, collabora con associazioni e festival nell’organizzazione di conferenze e workshop. È docente di progettazione fotografica, photo editing e comunicazione. È docente per Mu.Sa. (Monza) e Orti Fotografici (Milano). Come fotografa ha esposto El pueblo de Salinas e Ecuador: il piccolo gigante (2011, anche volume con introduzione di Luis Sepúlveda), Sono un cielo nuvoloso (2014, Interzone-Roma) e Qualcosa è cambiato (Priverno, 2017) | Sito loredanadepace.com | Facebook bit.ly/2VZe3MU | Instagram @ loredana_de_pace | INTERVISTA VIDEO NOC-HELLO - Loredana De Pace. Uscire dal proprio recinto, alla ricerca di cose belle https://youtu.be/phkaI2Owvx0

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