Redatto e pubblicato da Discorsi Fotografici
Scritto da Mirko Bonfanti, 10 Aprile 2019.
Dalla prima immagine scattata da Robert Cornelius (1839) e Nadar passando per Sander e Lange, Avedon e Leibovitz, Penn e Ritts fino ai giorni nostri, il ritratto fotografico ha sempre avuto una importanza centrale nel testimoniare l’individuo e raccontarne le proprie peculiartità, i propri sogni e le proprie sofferenze.
Dalla cartes de visite alla ricerca antropologica, dalla fotografia segnaletica a quella sociale, dall’autoritratto al fashion, il ritratto fotografico ha spaziato in ambiti ben più ampi di quel che si può immaginare ed ancora oggi rimane uno dei generi più praticati. Nel tempo ha perduto la sua veste di foto famigliare di ricordo per rimanere per lo più fortemente ancorata agli ambiti commerciali.
Ho avuto la fortuna di incontrare Enzo Dal Verme, ritrattista italiano di fama internazionale, ormai quasi 10 anni fa ad uno dei suoi primi laboratori e da subito ne ho apprezzato la filosofia, l’approccio e soprattutto lo stile.
Enzo Dal Verme è conosciuto per avere ritratto celebrità come Donatella Versace, Laetitia Casta, Marina Abramovic, Bianca Jagger, Wim Wenders.
Le sue immagini sono state pubblicate da Vanity Fair, l’Uomo Vogue, The Times, Marie Claire, GQ e tante altre riviste.
Oltre al ritratto si occupa anche di reportage, spesso legati ad iniziative sociali, come la serie di ritratti di Eroi Urbani scattati in Asia, Europa, America, Africa e Medio Oriente che documentano i successi di persone comuni che, rimanendo fedeli alla propria ispirazione, realizzano piccole e grandi imprese a beneficio di tutta la comunità.
Dal 2010 insegna i suoi fortunati workshop di ritratto nel corso dei quali gli studenti allenano la propria sensibilità ed esplorano il rapporto tra fotografo e soggetto. L’impostazione introspettiva, intima e riflessiva dei suoi corsi ha attirato un pubblico anche eterogeneo che varia da fotografi professionisti fino ai fotoamatori.
Alla sua attività di fotografo commerciale affianca una programmazione di mostre con i suoi lavori più personali. Enzo ha esposto in diverse gallerie in Italia e all’estero e in alcuni festival tra cui Arles.
Qual’è la tua personale storia della fotografia e quando nasce in te la consapevolezza che il ritratto è la forma di espressione che preferisci?
Ho cominciato a pubblicare le mie foto verso la fine del millennio scorso (sembra un sacco di tempo fa!), nel 2001 la decisione di chiudere la mia agenzia di comunicazione per dedicarmi solo alla fotografia. All’inizio ero un po’ allo sbaraglio, tanto entusiasmo senza un orientamento preciso. Poi, poco a poco, diventò chiaro che il ritratto era il genere che mi stimolava maggiormente. Il mio lavoro si sviluppò da subito principalmente nell’editoria. Negli anni precedenti avevo avuto la fortuna di lavorare (come art-director o con altre funzioni) sia nella moda che nella pubblicità con tanti fotografi diversi. Il valore di quell’esperienza si sarebbe poi rivelato molto importante. Io non avevo memorizzato schemi luci e impostazioni tecniche, ma avevo assimilato anni di discussioni tra professionisti dell’immagine su come migliorare l’impatto di certe fotografie. Senza che me ne rendessi davvero conto, tutti quegli incontri mi avevano aiutato a maturare un occhio fotografico.
Quali sono i grandi fotografi ritrattisti del passato a cui ti ispiri, se ce ne sono, e quali lezioni ti hanno lasciato?
Devo confessare di non avere mai studiato fotografia e di avere conosciuto i grandi fotografi poco a poco. Ci sono tante immagini che mi hanno emozionato per motivi diversi e in momenti diversi della mia vita. Alcuni scatti di Irving Penn hanno una forza incredibile per l’equilibrio della loro composizione. Amo l’intensità dei personaggi fotografati da Berenice Abbott. Considero i ritratti di Herb Ritts strepitosi per la loro eleganza ed essenzialità. Ho una passioncella per Peter Lindberg e ammiro la sintesi pulita di Avedon. Potrei continuare con un lungo elenco di nomi: Bruce Weber, Mappelthorpe, Cartier Bresson… e rischierei di dire delle banalità.
In realtà non mi ispiro a nessuno di loro per scattare, l’ispirazione è qualcosa che accade dentro di me. In genere non ho un’idea precisa di come sarà il risultato finale, ma riconosco quando mi sto avvicinando.
Recentemente, mi hanno fatto notare che le mie immagini hanno un’impostazione semplice, un volto e un gesto, come nei quadri della tradizione ritrattistica italiana.
In effetti, ci sono alcuni artisti che mi hanno affascinato durante i miei studi di storia dell’arte. Ad esempio Giovan Battista Moroni, pittore cinquecentesco famoso soprattutto per la sua capacità di coniugare la fedeltà al soggetto (anche con le sue imperfezioni fisiche) con l’indagine introspettiva. Nei suoi ritratti mi hanno sempre colpito l’intensità e la quiete che caratterizza gli sguardi.
Faccio fatica ad ammettere che quelle tele abbiano influenzato il modo in cui fotografo, ma fanno parte della mia formazione e appartengono al mio linguaggio.
Il ritratto è uno dei generi fotografici più complicati perché pone faccia a faccia due persone: qual è la tua filosofia, quale l’approccio e quanta importanza ha l’empatia?
Osservo i soggetti delle mie foto come se fossimo due onde nello stesso oceano. Due onde uniche e irripetibili, ognuna che nasce, si sviluppa e poi si dissolve come nessun’altra. Ognuna ha caratteristiche esclusive e senza eguali. E nello stesso tempo entrambe sono acqua, oceano, la stessa cosa. Scattando a volte riconosco qualcosa di me nella persona che fotografo, altre volte rimango sbalordito da come siamo diversi.
Capita che il nostro incontro sia difficile, il più delle volte fila tutto liscio. La piega che prendono le cose dipende da un’infinità di fattori, incluso il modo nel quale io rispondo alla situazione. A volte mi sento particolarmente entusiasta e curioso, altre volte qualcosa mi disturba. In ogni caso mentre scatto non mi limito ad osservare il soggetto, osservo anche me stesso perché ogni incontro presenta stimoli e difficoltà diverse. Se faccio attenzione, oltre a cogliere un aspetto di quella persona con la mia macchina fotografica ho l’opportunità di scoprire qualcosa di me. Questo è uno dei grandi privilegi di essere fotografo. Ed è anche uno dei motivi per cui io fotografo.
Quanto nelle tue fotografie di ritratto cerchi di evocare caratteristiche proprie del soggetto e quanto invece cerchi te stesso?
Una volta ero convinto di puntare il mio obiettivo su una sfumatura della profondità del soggetto e coglierla nella mia foto. Definizione esatta ma incompleta. Nella foto ci sono anche io. Sono io a sottolineare un aspetto che mi colpisce di quella persona. Sono io che decido di darle autorevolezza fotografandola dal basso in alto, di mostrare una versione più solare scegliendo quella luce particolare o di mostrare il suo lato birichino stuzzicando un’espressione furbetta.
E sono anche io che ho la responsabilità di fare in modo che la mia presenza nella foto sia solo il mio punto di vista, la visione da una certa angolazione di qualcosa che c’è veramente. Altrimenti non si tratta più di un ritratto di quella persona ma di una persona che si presta a recitare una mia fantasia.
Diane Arbus sosteneva «Credo davvero che ci siano cose che nessuno riesce a vedere prima che vengano fotografate». Dove si può spingere la fotografia di ritratto in questo senso?
Una fotografia non mostra solo il soggetto, ma anche il punto di vista del fotografo. Ci mostra “cose che non esistono più” da un certo punto di vista e “cose che nessuno riesce a vedere” perché l’attenzione selettiva di ognuno si posa su aspetti diversi dello stesso contesto.
Dal momento nel quale viene scattata, un’immagine fotografica comincia ad invecchiare. Se pensiamo alla fotografia come qualcosa che documenta un avvenimento, quell’attimo immortalato non esiste più già nell’attimo successivo. L’espressione dei soggetti non è più la stessa, la situazione neppure. Ma se consideriamo la fotografia come uno strumento che ci consente di connetterci – per esempio – con l’essenza di uno stato d’animo, allora il tempo lineare passa in secondo piano e quell’immagine avrà potenzialmente la forza di evocare nello spettatore qualcosa che va oltre lo scorrere del tempo. A seconda di ciò che è riuscito ad immortalare il fotografo e di ciò che lo spettatore riesce a percepire, la stessa fotografia può documentare un attimo di esistenza passata, connettere con una particolare emozione, simboleggiare un momento storico e molto di più…
L’intervista prosegue sul sito di Discorsi Fotografici.
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