Per molti di quegli italiani che nell’estate del 1982 avevano una età sufficiente a salvarne oggi i ricordi, i giorni che andarono dal 13 giugno all’11 luglio furono i più esaltanti, spettacolari ed elettrizzanti che avessero mai vissuto dal dopo guerra in poi.
Spagna 1982.
Mondiali di Calcio.
Inaspettatamente la Nazionale di Calcio Italiana guidata da Bearzot e partita tra lo sfavore generale, si impone in un crescendo impressionante culminato con la vittoria per 3-1 contro la Germania Ovest.
Quell’anno, in quell’estate spagnola, a testimoniare l’impresa di Tardelli, Rossi e soci c’era John McDermott inviato di Newsweek.
Oggi lo intervistiamo per farci raccontare di quell’estate e di come i reporter di allora testimoniassero eventi sportivi del calibro di un Mondiale senza poter contare sulle connessioni Wi-Fi, sull’invio veloce di file e su tutte le agevolazioni portate dall’introduzione della fotografia digitale.
– Un americano innamorato del soccer. Insolito. da dove nasce la passione per il calcio?
Sono cresciuto a Philadelphia, una città americana con una lunga storia calcistica (come Saint Louis, New York, San Francisco, Boston, Los Angeles) dovuta alle varie communità etniche-Irlandese, Italiana, Polacca, Scozzese, Ungherese, Tedesca, Greca, Ucraina.
Ho giocato calcio quasi dalla mia infanzia.
Certo, sportivamente parlando eravamo una minoranza, ma nonostante quello il livello era abbastanza alta.
– Dopo il militare e il calcio semi-professionistico il tuo primo impiego fu come giornalista sportivo, ma nella tua biografia si legge che comprasti la tua prima reflex in Giappone e che iniziasti a scattare foto per divertimento. Quale fu allora la scintilla che ti fece prediligere la fotografia al giornalismo?
Avevo comprato una Nikkormat e tre obiettivi Nikon (35/2, 50/1.4 e 135/2.8) quando ero in Asia a bordo di una portaerei. Costavano allora davvero poco.
Scattavo per avere qualche ricordo ma un giorno, l’anno dopo il congedo, ispirato dalle foto che vedevo sulle pagine di Life e Sports Illustrated, ho deciso di provare a fotografare il calcio. Ogni domenica c’erano quattro partite allo stadio di San Francisco. Quindi dopo la mia partita sono rimasto a fare qualche foto. Pian piano, facendo tanti errori, ho fatto un po’ di progresso. Mi sono comprato un’obiettivo più lungo(300mm/4.5).
A un certo punto ho avuto il coraggio di andare a New York col mio piccolo, modestissimo portfolio (che oggi sarebbe da ridere) e ho chiesto un’appuntamento a Sports Illustrated.
Con mia mia sorpresa mi hanno detto di tornare il giorno dopo. Sara’ stato il fatto che non conoscevano fotografi capaci di fotografare calcio che mi ha aiutato a ricevere, dopo un’anno, una chiamata da loro. Mi hanno proposto di fotografare una partita a New York, Inghilterra vs Italia allo Yankee Stadium. Al mio parere non andavo tanto bene: luce scarsa, pellicola anche scarsa, Nikon F2 con una scarsa 300/2.8 Topcor (perchè non esisteva ancora un tale obiettivo Nikon). E tutto manuale. Ma erano contenti e continuavano a chiamarmi.
Diventavo, dopo un’altro anno, il loro fotografo di fiducia a San Francisco, e non solo per il calcio. Si, ci voleva tanto impegno, ma anche un po’ di “culo”. Come al solito, in ogni campo.

© John McDermott. Johan Cruyff, Olanda vs Irlanda del Nord, Windsor Park. Belfast. 1977 Nikon F2, 135mm f/2, Kodachrome 64
– Veniamo a quell’estate del 1982. Perché Newsweek scelse proprio te?
Avevo già un ottimo rapporto con Newsweek, facendo un po’ di tutto per loro ormai da sei anni.
Quando hanno deciso di avere un fotografo in Spagna lavorando in esclusivo per loro, hanno chiamato me.
Sapevano che non ero solo uno capace di fotografare il calcio ma che avevo giocato a un livello discreto e che avevo delle conoscenze nel mondo del calcio e che potevo essere di aiuto ai loro giornalisti.
– Raccontaci qualcosa sulla attrezzatura utilizzata e sul “dietro le quinte” nel seguire un mondiale “analogico”
Usavo Nikon dall’inizio fino a1990. Usavo F2, F3, F4. I miei obiettivi preferiti per il calcio erano il 400/3.5 ED (poi il bellissimo 400/2.8ED) e il leggero 500/4 ED.
Però ho fatto una delle mie foto di calcio più conosciute -a Johan Cruyff- con una F2, 135mm f/2 ED e Kodachrome 64. Era a Belfast, Irlanda del Nord vs Olanda.
Durante Italia ’90, al San Siro per la partita Germania-Emirati Arabi, c’era un diluvio. Una per una, tutte e quattro le mie fotocamere Nikon hanno smesso di funzionare. Jürgen Klinsmann aveva segnato un gran gol e si era fermato a festeggiare davanti a me, sotto la pioggia. In quel momento la mia ultima corpo macchina ha deciso di morire. Niente foto a Klinsmann.
Seduto al mio fianco, un amico che lavorava per Time (quindi il nostro concorrente più importante). Lui usava Canon e ha fatto una bellissima foto a Klinsmann che è stata usata in due pagine di Time. Potete immaginare le mie emozioni. Durante l’intervallo la Canon mi ha prestato una EOS 1 e un 300/2.8L. Andavano benissimo e me ne sono innamorato.
Le mie Nikon tornavano a lavorare il giorno dopo. Ma dopo il Mondiale sono tornato a San Francisco e ho venduto l’attrezzatura Nikon e ho comprato Canon.
Adesso, comunque, sto usando Sony ormai da un’anno.
– Dopo quel mondiale ne raccontasti tanti altri. Quanti e quali?
Ho fatto ogni mondiale da 1982 a 2006, quasi sempre per Newsweek. Ho lavorato anche per FIFA dal ’88 al ’02. Ero uno dei fotografi ufficiale FIFA ai mondiali in Francia (1998) e poi in Giappone e Korea (2002) e per le Olimpiadi in Korea (1988) e Australia (2000).
Ho lavorato anche per riviste tedesche-Italia ’90 l’ho fatto per Newsweek ma anche per Stern e in 2006 in Germania ho lavorato per la settimanale Focus. Avrebbero potuto scegliere un’altro fotografo tedesco -e ce ne sono molti che siano bravi- ma hanno scelto me, un’Americano. Me ne sono fiero.
– Però non sei legato solo al calcio e nella tua lunga carriera hai raccontato anche altri sport e poi il reportage, i viaggi, i ritratti. Come si diventa un fotografo così poliedrico come lo sei tu?
La chiave, per me, è la curiosità. Bisogna essere interessato in molte cose, non solo lo sport. Poi, devi lavorare e devi fare tanti errori, che per me è la “scuola” più efficace che c’e. E devi cercare continuamente di allargare i propri limiti. Un vero fotografo non si sente MAI di essere “arrivato”. In quel momento sei morto.
Essere (dico “essere” e non “fare”) fotografo è un viaggio, un modo di vivere, un lungo percorso di studiare e imparare e osservare che non finisce mai.
La fotografia mi ha regalato una vita molto bella ed interessante.
– Veniamo alle “questioni tecniche”. Prediligi un formato ed una tipologia di fotocamere particolare o utilizzi più fotocamere a seconda del lavoro/progetto da realizzare?
Le fotocamere sono attrezzi.
Ho sempre usato l’attrezzo più adattato al lavoro del momento. Per lo sport, reportage e per i viaggi usavo 35mm -Nikon, Leica M4, Canon EOS e adesso Sony Alpha.
Nello studio, Hasselblad.
Ho lavorato anche con una Fujifilm 6 x 17cm, formatto che amo, e con una Noblex 120 panoramica.
– Come è cambiato l’approccio e il lavoro del fotografo (sportivo ma non solo) con l’introduzione del “digitale”?
Prima del digitale quando ero finito a fare le foto al mondiale davo un pacco al corriere che portava le pellicole a New York o in Germania. E andavo a cena coi colleghi. Adesso non è più possibile perchè il laboratorio siamo noi e poi dobbiamo trasmettere le foto.
Ora siamo fortunati di poter dormire qualche ora prima di ripartire il prossimo giorno.
Per i miei lavori commerciali mandavo le pellicole al laboratorio e guardavo dopo ai risultati. Anche li, siamo noi adesso il laboratorio. Devo fare io la selezione, le correzioni, etc., etc.
Insomma, ci costa più tempo. Siamo stati costretti di diventare tecnici dell’informatica e di post-produzione.
Non me ne lamento, però…
Anzi, mi diverto molto usando Capture One Pro.
– Dopo il tuo girovagare da San Francisco per tutto il mondo, cosa ti ha portato a fissare dimora sulle vette del Trentino Alto Adige?
Ho sempre avuto un “feeling” particolare per l’Italia che per me era diventato la mia seconda casa, ormai da più di 30 anni. Quando seguivo la Coppa del Mondo di Sci, anni ’80-’90, ero diventato amico di alcuni sciatori italiani (come Grigis, Edalini, Erlacher, Mair, Ghedina, Toetsch, Tonazzi, Pramotton, De Chiesa et. al.). Venivano a trovarmi a San Francisco e io venivo a trovarli in Italia.
Mia moglie, Claudia, e tedesca, di Colonia. Nel 2015 abbiamo deciso di lasciare San Francisco per vivere in Europa, più vicino alla sua madre anziana. San Francisco non era più la città di tanti sogni. E l’America cambiava già in una direzione che non ci piaceva molto. Era ora di cambiare aria.
La scelta dove andare era quasi ovvia: la provincia bilingue dove si possono parlare sia tedesco che italiano e dove io avevo già molti amici, una zona che è sempre piaciuta anche a Claudia. Io ho due passaporti, USA ma anche Irlanda. Quindi per noi, entrambi “europei” non c’erano problemi di permesso di soggiorno.
Ora viviamo ad Appiano sulla Strada del Vino, quindici minuti fuori Bolzano, fra le vigne e le colline. Siamo a metà strada fra Monaco e Milano, e due ore dal aeroporto di Venezia.
E siamo tutt’ora molto contenti della nostra scelta.
– E ora veniamo alle questioni “serie”. Cosa ti lega al buon vino?
Roba seria! Ho sempre apprezzato un calice di buon vino. Vivendo per tanti anni a San Francisco ero vicino a Napa Valley dove andavo ogni tanto a visitare le cantine e dove avevo anche alcuni clienti come Robert Mondavi.
Adesso viviamo in Alto Adige nel mezzo di una bellissima zona vinicola.
Ho avuto la fortuna qui di trovarmi come clienti alcuni produttori, per esempio Alois Lageder, e in Toscana Giovanni Bulgari.
Questo è un progetto visivo che ho realizzato per Lageder l’anno scorso, l’introduzione di una nuova linea di vini dal Trentino.
Che bell’articolo – ottime domande, ottime risposte.
John, grazie per l’introduzione a Casa Italia in diverse Olimpiadi.
Il tuo consiglio di pensare di averlo fatto si applica anche ad altre professioni.
Ho adorato i tuoi commenti sul digitale.
Ricordo di aver visto il nostro amico Barton al parco giochi nei primi giorni del digitale.
Era così felice di poter fare le sue scelte.
Ma vedo come sia più lavoro per il fotografo. È bello sentire “parlare di negozio” da un maestro.
Tanti auguri a Claudia.
George Vecsey, ex-NYTimes.