Maurizio Garofalo nasce nel 1959 ad Ancona.
Si laurea in Architettura, ma abbandona quasi subito per dedicarsi alla grafica editoriale e alla fotografia.
Giornalista professionista, è lui l’art director e il photo editor di “Diario” diretto da Enrico Deaglio dal 2000 al 2009, negli anni in cui il settimanale (poi quindicinale) vince il premio internazionale “Guide de la Presse” come miglior giornale al mondo (2002)
Da Ancona, passando per Venezia, Firenze, Napoli, Roma, Milano, oggi Maurizio Garofalo è professore stimato in fotografia e fotogiornalismo, presiede conferenze e letture-portfolio in Italia e all’estero, è curatore, photo editor e ha ruolo di giurato in concorsi di fotografia.
1- Maurizio, ma da bambino cosa avresti voluto fare da grande?
Ho iniziato a studiare musica all’età di sette anni per cui, passata la fase dell’astronauta e del cowboy, per molto tempo ho pensato che da grande avrei fatto il musicista.
La cosa ha funzionato fino a che è durato l’effetto enfant prodige, poi mi sono trovato davanti a un mondo molto duro, che non regala niente a nessuno e, onestamente, mi sono spaventato: mi sono immaginato un ingrigito e scontento insegnante di chitarra classica per tutta la vita e ho deciso di relegare la musica al ruolo di una passione da coltivare e alimentare il più possibile, ma di guardare altrove per le scelte professionali e lavorative.
Seguirono anni indecisi e confusi sul mio avvenire, da cui mi salvò mio padre, concedendomi il tempo di sperimentare mille interessi e passioni (probabilmente le stesse passioni a cui lui aveva dovuto rinunciare), che mi aiutarono a individuare la mia strada.
Mi sono laureato in forte ritardo con il massimo di voti, ma non l’ho mai considerato tempo perso: quello che sono oggi è la somma di tutto ciò che ho appreso, che ho amato, in quegli anni, più che nel reale percorso accademico.
2- Cosa ti ha portato dalla Architettura al Giornalismo e alla Fotografia?
È stato un avvicinamento lento e fluido, senza scossoni per diversi anni. Mio fratello, anche lui architetto ma molto più bravo di me, aveva comprato il primo computer Macintosh messo in vendita dalla Apple: aveva 512 Kb di RAM e nessun hard disk ed era costato quanto un’automobile di media cilindrata. Eppure con quella “baracchetta” stava impaginando una sua “Guida dell’Architettura Moderna”, da pubblicare con Zanichelli. Vedere comporsi le pagine in quel piccolo monitor mi sembrò una magia e iniziai subito a volere conosce le regole di quel miracolo.
Il mestiere di architetto si era rilevato deludente: durante la formazione ti convincono che dovrai “ripensare la città” e poi ti trovi a fare ristrutturazioni di interni per tutta la vita (se va bene): per me se la batteva con l’ingrigito insegnante di musica…
Conoscevo diversi professori che insegnavano in università americane e canadesi e, mentendo spudoratamente sulle mie capacità e potenzialità, mi offrii di impaginare i loro “House Organ” e le dispense con i lavori degli studenti. Praticamente da quel momento non ho mai smesso di impaginare.
Quindi aprii un piccolo studio grafico con due amici, in cui facevamo di tutto: dalle riviste per editori di terz’ordine alle etichetti di vini e conserve.

Isola Giglio 2003 @ Sofia Scialoja
Arrivare alla grafica con una formazione da architetto mi aiutò molto e avevo comunque scelto un percorso di studi che, nonostante una laurea in progettazione architettonica, prevedesse molta storia dell’arte, dell’architettura, di estetica (che paradossalmente dovetti andare a studiare alla facoltà di Lettere).
Se ci pensi la grafica è facilmente paragonabile ad una micro architettura, e un giornale può essere considerato un micro edificio, con i suoi spazi “alti”, di rappresentanza e gli anzi minori, di servizio. È sempre con un problema di ritmo compositivo. Ma la differenza è che mentre la tua architettura sarà sempre mediata da molti compromessi (dal gusto del cliente, al budget, alle capacità dell’impresa costruttrice e, soprattutto, dai lunghi tempi di realizzazione), il tuo micro edificio grafico sarà realizzato di lì a poche ore e sarà quasi sempre la fedele interpretazione della tua idea originale. Ciò è molto gratificante e anche divertente.
Per quanto riguarda la fotografia, fotografo dall’età di 12 anni, ma è sempre stata solo una delle tante passioni che accompagnano la mia vita. Da un punto di vista professionale, ho iniziato a lavorare in giornali molto strutturati, dove mi occupavo esclusivamente del servizio grafico e avevo nella stanza accanto almeno quattro persone che si occupavano del fotografico. Ho iniziato a occuparmene professionalmente nel 2000, quando mi sono trasferito a Milano per lavorare in un giornale in cui i servizi erano entrambi affidati a me.
Comunque, a essere sinceri, non ho mai pensato al giornalismo (e al fotogiornalismo) fino a oltre i trent’anni e questo lo dico per rassicurare i più giovani: avranno mille occasione per “ribaltare” e reinventare le loro vite.
3- Dei tanti lavori che hai svolto, qual’è quello che fino ad ora ti ha dato più soddisfazioni?
Sicuramente i 10 anni trascorsi a “Diario”, appunto, come Art Director e Photo Editor. Il direttore, Enrico Deaglio, aveva creato una redazione geniale, che nel più assoluto caos e inefficienza produceva ogni settimana un giornale bellissimo e molto originale nei contenuti.
Enrico mi ha concesso una libertà creativa e intellettuale che non ho mai avuto negli altri giornali e credo, sinceramente, di essere riuscito a contribuire al suo successo e di aver creato un profondo e intenso legame con il reportage fotografico e con i fotografi.
“Diario” era un giornale dove i fotografi sapevano di poter venire senza prendere appuntamento e, spesso, si aggregavano ai nostri pranzi, sapendo che quel momento era una fucina di idee e intuizioni su possibili progetti.
È stata una esperienza fantastica e straordinariamente divertente, ma per me il mondo dei giornali si è chiuso per sempre (inoltre, per fare quel lavoro, ci vuole un fisico bestiale che io non ho più).
Oggi traggo grande soddisfazione dall’insegnamento, soprattutto perché non insegno una materia tecnica, ma devo inventarmi ogni giorno un percorso formativo, trasversale e multiculturale per insegnare a raccontare per immagini.
4- E quello che ti ha più deluso?
La mia esperienza, per fortuna di soli quattro mesi, nel quotidiano “L’Unità”.
Non ho mai nascosto il mio orientamento a sinistra e pensavo che lavorare per il giornale organo del Partito Comunista sarebbe stata una bellissima esperienza. Invece è stato un disastro, sul piano professionale e sul piano umano e feci il diavolo a quattro per andarmene prima della scadenza del contratto, perché sentivo che non avrei resistito una settimana di più.
Ma anche questa è storia di una vita fa. Oggi mi delude, molto, quando ti chiamano per organizzare un festival o un evento, ti promettono mille risorse, ti garantiscono budget ricchissimi e a un mese dall’inaugurazione ti comunicano che il budget sarà sufficiente, forse, a realizzare una cena…
5- Hai partecipato e presieduto ad una infinità di Festival e Rassegne sulla fotografia. A tuo parere sono più utili a chi le organizza (sponsor e autori) o a chi le anima (i fotografi)?
Sì, ho organizzato e diretto diversi festival e la mia personale esperienza è che se non ci rimetti soldi tuoi è già andata molto bene. Inoltre un festival deve sopravvivere per diverse edizioni, prima di sperare di vedere degli utili. Gli sponsor sono una razza pressoché estinta e devi accontentarti degli sponsor tecnici, che comunque ti aiutano ad abbattere i costi vivi. Io non ho mai pensato a questa attività come una fonte di reddito: lo fai, evidentemente, per altre ragioni.
Un festival può essere una occasione utile per i fotografi a condizione che si riempia di molti contenuti oltre le mostre. Oggi la fotografia è molto più visibile di una volta, in molte forme: i libri sono più accessibili e se ne produce una quantità forse perfino eccessiva e poi c’è il web, una vetrina planetaria. Io penso siano utili e importanti le occasioni di dibattito, i confronti, le letture portfolio con validi professionisti dei diversi settori che si occupano di fotografia.
Per molti anni sono andato regolarmente al Visa Pour l’image, a Perpignan, a selezionare autori e lavori da pubblicare durante l’anno. Era utile a me ed era utile ai fotografi.
Oggi, comunque, ho quasi del tutto smesso di frequentare i “grandi” festival in favore dei piccoli festival di provincia, realizzati davvero con passione e sforzi inumani. Portare la fotografia (e il dibattito sulla fotografia) nei luoghi lontani dai grandi circuiti culturali, mi sembra un lavoro più utile, meritorio e quasi sempre più divertente.
6- Ad un fotografo che vorrebbe emergere, cosa consiglieresti? Di pubblicare un libro? Di allestire una Mostra? Di partecipare ad un Festival o Concorso? Tutto insieme o niente di tutto ciò?
Tutte le occasioni che possono creare visibilità sono utili. Ma occorrono dei distinguo. Oggi auto produrre un libro ha un costo accessibile a tutti ed è un modo per mostrare un progetto in maniera integrale, senza vivere i compromessi di una produzione editoriale (giornali, magazine etc.). Inoltre sono da sempre convinto che realizzare un bel libro costa quanto realizzarne uno brutto. Vorrei solo ci fosse una maggiore onestà intellettuale, da parte degli autori e di che li cura e li consiglia, su ciò che merita davvero di diventare un libro.
A me capita spesso di curare libri di fotografia, ma devo credere nel progetto e essere convinto della sua qualità, altrimenti sconsiglio all’autore l’investimento necessario, anche a costo di rinunciare all’incarico. Credo che molti scaffali siano pieni di libri invenduti, perché non meritavano di essere creati.
Anche i concorsi sono utili, ma bisogna diventare molto esperti nella lettura dei bandi, perché vedo molti concorsi che sembrano pensati per dei “turisti della fotoamatorialità” e che non garantiscono alcun premio, se non una mera gratificazione della propria personale vanità.
Ma la cosa che vorrei consigliare di più è leggere, leggere tantissimo e di tutto: non solo testi di e sulla fotografia, ma romanzi, racconti, tutto ciò che può accrescere il bagaglio di conoscenza, esperienza e memoria. Inoltre, ci sono autori come Green, Conrad, Mann, che hanno nella loro scrittura, nelle descrizioni forti valenze immaginifiche, fotografiche: ricordo di aver letto molti anni fa “Nostromo”, un piccolo racconto di Joseph Conrad e di ricordarlo oggi come se avessi visitato i luoghi in cui è ambientato. Tutto questo aiuta molto a immaginare una fotografia.
Più leggi, più si estende il mare in cui ti troverai a veleggiare (e veleggiare in un laghetto può risultare molto noioso).
In ultimo consiglierei ai giovani fotografi di mandare spesso lo sguardo oltre le loro fotografie, di visitare i festival stranieri e di studiare le produzioni che si realizzano all’estero.
7- In più di una occasione ti sei cimentato anche come fotografo e fotoreporter. Che voto e giudizio ti assegni come fotografo?
Ahimè, sicuramente non raggiungo la sufficienza e mi capita spesso di dire che amo la fotografia di un amore non ricambiato. Nonostante passi la vita a insegnare a raccontare con le immagini, io sono invece un fotografo spesso distratto e deconcentrato. Ottengo delle belle immagini, a volte perfino buone, ma sono immagini decontestualizzate e senza un reale intento documentaristico o narrativo. D’altronde non mi considero un fotografo e ho sempre voluto evitare il possibile conflitto di interesse tra Photo Editor e Fotografo; so di noti colleghi che erano soliti pubblicare le loro fotografie sul giornale dove lavoravano, ma io non ho mai voluto farlo.
I fotografi professionisti vengono da me e non si trovano a confrontarsi con il mio talento; e io sono libero di leggere i loro lavori senza confrontarli con ciò che avrei fatto io.
Ho in archivio oltre 70.000 immagini che nessuno vede mai: probabilmente sarò una nuova “Vivian Mayer”.
8- Maurizio Garofalo è anche un discreto collezionista, ma tra le tante fotocamere e ottiche che possiedi, qual’è la tua accoppiata preferita?
Quando individuo una passione divento pericolosamente compulsivo: ho ancora sette chitarre a Roma e cinque a Milano, che purtroppo uso sempre più raramente.
Ho incominciato a fotografare con una Zenith sovietica, che potevi riparare con gli elastici e continuava a funzionare, donatami da un profugo cubano che la mia famiglia aveva ospitato, per poi passare ad un’allora nuovissima Nikon F301, una piccola macchina, la prima a inglobare il motore per il trascinamento della pellicola; ho amato moltissimo questa macchina, tanto che di recente ho voluto ricomprarla.
L’ultima volta che ho contato le mie fotocamere erano 80 corpi e oltre 200 obiettivi. Ovviamente molte macchine non le userò probabilmente in tutta la vita, ma ho una passione quasi fisica, sensuale, per la mia Leica M6 con un 35/2 asferico e una M2, che ho rivestito di pelle verde lago (cosa che ha fatto inorridire Gianni Berengo Gardin) con su uno Zeiss Jena Sonnar 50/1.5.
9- C’è anche la Musica con la M maiuscola nella tua vita. Il conservatorio, la chitarra… Cosa ti affascina della Musica e con quale artista ti sarebbe piaciuto oppure ti piacerebbe esibirti
Goethe diceva che per lui “l’architettura è musica congelata”. Penso che conoscere la musica, equivalga a sapere parlare una lingua in più e ho sempre trovato strette connessioni tra musica, architettura, grafica e fotografia. Il grado di libertà con cui si utilizzano rigide regole matematiche (la musica è matematica pura) è sorprendente e apre a livelli di creatività meravigliosi. Probabilmente ciò che unisce tutte le passioni che hanno accompagnato la mia vita è semplicemente la ricerca di un ritmo. Considera che ho anche ballato a lungo il “tap” (o “tiptap” come viene definito in italiano), una bellissima danza che è, per l’appunto, da guardare e da ascoltare. Riguardo spesso i meravigliosi film con Fred Astaire e Ginger Rogers, che hanno fatto sognare un’America in sofferenza per la crisi economica e la guerra mondiale.
Sono ancora oggi eleganti e consiglio a tutti di guardarli, di tanto in tanto, perché hanno una splendida fotografia in bianco e nero.
Per tornare alla tua domanda, moltissimi anni fa mi capitò di suonare per qualche minuto con Pino Daniele in un retro palco e fu davvero magico: Pino aveva un tocco straordinario e dava alle sue chitarre una voce bellissima… Adorerei poter suonare ancora con lui e non mi stancherei mai di ascoltarlo.
10- Torniamo all’inizio e al Maurizio bambino. Raccontaci di un colore e di un odore che ancora ricordi della tua infanzia anconetana e perché.
In realtà ad Ancona siamo rimasti molto poco e i primi ricordi che ho risalgono a Venezia: che ci crediate o no, ricordo che camminavo rasente i muri per la paura di cadere in acqua! A causa del lavoro di mio padre abbiamo cambiato molte città e i ricordi spesso si sovrappongono e si confondono, ma c’è un ricordo comune a tutte le città in qui abbiamo vissuto. Mia madre ha sempre portato con sé un po’ di meridione e preparava una pasta con il sugo a cui aggiungeva dei “friggitielli” arrosto, i peperoni piccoli, stretti e lunghi: avrei voluto avere una fotocamera in grado di fermare i colori, gli odori e i sapori.
Persona di spessore, educata, umile e capace di esprimersi..sembrano aggettivi banali, forse perché così rari da trovare oggi in parecchie situazioni.
A proposito di umiltà, mi basterebbe essere l’autore di una delle tue foto usate a corredo dell’articolo.
Credo che tante persone siano capaci di produrre ottime foto ma hai ragione tu Maurizio, la differenza sta nel saperle mettere insieme con un senso logico e coerente con l’idea di partenza (che spesso manca).
Ciao