Carlo Pettinelli. 37.4°: il limite invalicabile. Intervista di Loredana De Pace

Fotografie di Carlo Pettinelli

Intervista di Loredana De Pace

Il fotografo Carlo Pettinelli è l’autore di 37.4°, un progetto realizzato a Roma, durante la pandemia e subito dopo la riapertura dal lockdown.

Per scattare, Pettinelli si è servito di una fotocamera termica che evidenzia le differenze cromatiche e le relative campiture in base alla temperatura corporea.

L’effetto finale dei suoi scatti è straniante perché l’osservatore è subito immerso in questo colore “psichedelico”, in un format al quale non siamo abituati; solo dopo si individuano e riconoscono volti, sagome umane, ambienti, linee di contorno. L’autore ha intitolato il progetto 37.4° perché è la temperatura limite oltre la quale il rischio di aver contratto il Covid-19 è significativo e ciò potrebbe portare all’inizio del calvario causato da questa malattia.

La forza motrice di 37.4° non vuole essere consolatoria, ma stimolare un sussulto, smuovere la terra e gli occhi, spostare la sfera emotiva fuori dalle nostre rispettive zone di comfort fino a realizzare quanto bello possa essere stare in punta di piedi sopra il proprio mondo per vederlo diversamente ed esserne più consapevoli.

Abbiamo chiesto a Carlo Pettinelli di raccontarci la genesi di questo lavoro e degli sviluppi futuri, della sua carriera e della filosofia che soggiace alla sua produzione.

Partiamo dalla fine: durante il periodo di quarantena e all’inizio della Fase 2 hai prodotto il lavoro 37.4°. Vuoi raccontarci la genesi di questo progetto?

Ho vissuto la quarantena con un’iniziale curiosità, forse anche con una certa aspettativa, come quando guardi fuori dalla finestra e scopri con sorpresa che ha nevicato. Non puoi fare più nulla, tutto è bloccato e immobile. All’inizio viene fuori il bambino che è in noi, guardi la novità, pensi che durerà poco, il tempo di una nevicata, appunto. Poi noti che la neve non si scioglie, anzi diventa ghiaccio. L’isolamento sembrava non finire mai, per cui il silenzio e l’immobilità hanno cominciato a pesare sulle finestre, sui solai, a entrare in casa da ogni canale televisivo, dalla radio, da ogni pertugio di collegamento con l’esterno. Questa sovraesposizione mediatica della pandemia ha giocato un ruolo fondamentale nella genesi del mio lavoro, tutti eravamo costantemente invitati a controllare la nostra igiene e la temperatura corporea, limitare i nostri contatti: tutte informazioni ridondanti ripetute, giustamente, fino allo sfinimento.

Per un fotografo non poter uscire a fotografare – perché in quel momento non avevo assignment che me lo avrebbe consentito legalmente – ti porta inesorabilmente a scattare nel tuo spazio o te stesso, per non perdere un’importante occasione di auto-osservazione e, al tempo stesso, per non perdere il contatto con la macchina fotografica. Poi, online, ho comprato una nuova fotocamera ed è iniziato un altro percorso…

Incuriosisce, guardando le immagini, l’aspetto tecnico. Come hai eseguito questi scatti?

Lo strumento che ho utilizzato per questo lavoro è una fotocamera termica, è sensibile quindi alla temperatura e insieme alla luce. Nasce per scopi tutt’altro che artistici, serve ad esempio per misurare la temperatura di un edificio o di un muro, per verificare o monitorare la tenuta termica. In generale si usa per misurare la temperatura di qualcosa senza doverlo necessariamente toccare, insomma nasce per scopi molto pratici.

In 37.4° in che modo è stata eseguita la doppia immagine che si nota, specie in alcuni scatti?

Questa fotocamera dispone di due obiettivi, uno sensibile alla temperatura, un altro sensibile alla luce che lascia un contorno dell’immagine effettiva, quella che vediamo con i nostri occhi. I due obiettivi inquadrano porzioni del soggetto leggermente differenti, restituendo quindi un “errore di parallasse”, in pratica è sfalsata la sovrapposizione delle immagini cromatiche rispetto alle linee di contorno dei singoli soggetti ripresi. Inoltre hanno tempi di risposta diversi, per cui se si fotografa un soggetto in movimento, questo viene amplificato, sdoppiato grazie alla distanza delle due immagini sovrapposte. Inizialmente mi infastidiva molto la doppia immagine risultante: era come vedere un fuori sync ottico. Poi, dopo un po’ ho cominciato a vedere la cosa come un elemento in più, qualcosa che mi indicava una nuova chiave di lettura delle immagini, e ho cominciato a riconoscere anche la potenzialità espressiva di questo risultato.

Qual è il messaggio di 37.4°?

La spinta iniziale è stata quella di affrontare la situazione della pandemia: la temperatura corporea e più in generale il concetto stesso di temperatura erano diventati la nuova variabile da tenere sott’occhio, e ahinoi lo è tuttora, quello che classifica una persona, nella dicotomia buona o cattiva, potenzialmente infetta o presumibilmente sana. Ma nessuno è mai davvero al sicuro e questa pandemia ce lo sta insegnando ogni giorno, specie quando si parla di contagi da individui asintomatici, tanto per dare un esempio. Allora guardare il mondo attraverso la temperatura e non attraverso la luce, diventa un modo per essere resilienti, affrontare le proprie paure, interpretare il nostro tempo senza nascondersi nelle troppo confortevoli zone di comfort. Questa zona rassicurante esiste anche dal punto di vista fotografico. Ad esempio con la pratica della semplice documentazione didascalica di questi strani giorni di pandemia. Il mio sguardo termico non è orientato a misurare la temperatura delle persone e a classificarle, tanto che le uniche due temperature visibili in sovraimpressione sono poco utili dal punto di vista sanitario e sono state lasciate come fossero una citazione, la firma di questo nostro tempo.

L’immagine termica ha un senso più profondo, ossia cercare una diversa dimensione delle cose, oltre il visibile, oltre l’apparente e l’apparire. È al tempo stesso forma e contenuto, i colori accesi, attraenti e insoliti sono legati a una variabile, la nostra temperatura per l’appunto, che è qualcosa che ci dice se siamo vivi o morti. La doppia immagine sottolinea il gap con quello che vediamo, il nostro elemento vitale è sfalsato rispetto al nostro corpo visibile che viaggia con altri ritmi. Questo è il valore aggiunto di quello che prima ho chiamato fuori sync: ciò che conta, il nostro essere vivi non è visibile alla vista.

Continuerai a scattare per questo lavoro ora che siamo tutti “liberi”?

Siamo uomini tecnologici, non c’è dubbio, e qualsiasi tecnologia utilizziamo alla fine facciamo sempre riferimento al nostro mondo interiore. Sia che usiamo un sasso per lasciare un segno su una superfice più friabile, sia che scegliamo la più moderna tecnologia, quella che ci fa vedere l’invisibile, come la temperatura. Succede che l’immaginazione, i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, i desideri, gli elementi psichici che ci attraversano diventano parte del racconto, e sono sempre gli stessi da migliaia di anni. Personalmente preferisco una fotografia che parta da questo mondo interiore per trovare fuori, nel mondo esterno, ciò che gli corrisponde, piuttosto che una fotografia che cerca nel mirino semplicemente quello che gli piace, per riportare il fotogenico, l’esotico o il caratteristico. Quindi sì, continuerò a utilizzare la termocamera perché aiuta questo processo interiore, mi fa vedere oltre lo sguardo, è una sorta di ginnastica ottica/psicologica alla quale sono già abituato con la fotografia che normalmente pratico. Credo anche che dopo questa esperienza ricomincerò a utilizzare la fotocamera tradizionale in un modo differente.

Facciamo un passo indietro: sei fotografo, ma anche docente e formatore-counsellor. Vuoi descriverci Carlo Pettinelli visto nella sua unità?

Non ho un’unità, codice fiscale a parte, quando scrivo il mio curriculum ho sempre dubbi su quale attività scrivere prima, dopo una laurea in statistica – che non uso – fotografo professionalmente dal 2000, insegno fotografia dal 2005, mi sono diplomato come counsellor/formatore nel 2017 e nel 2018, mi sono specializzato in fotografia terapeutica, sono per prima cosa quello che faccio nel preciso momento in cui lo faccio e devo accettare questo dato come una unità in movimento.

E andando ancora più indietro: perché hai scelto di esprimerti con la fotografia?

A questa domanda mi sono risposto in tempi piuttosto recenti, ricordo che insegnavo già da un po’. Ho iniziato a fotografare inseguendo l’attimo decisivo di Cartier-Bresson, il mio primo grande amore fotografico, e poi la street photography di Alex Webb che ho avuto il privilegio di conoscere. Ricordo con precisione il piacere dei primi scatti come un’escursione in un tempo parallelo, quello della concentrazione dentro al mirino. Inseguendo un soggetto fotografico succedeva una magia: mi dimenticavo di me stesso, come in una sorta di meditazione guidata. E la cosa strabiliante è che succede ancora, il più delle volte. Ecco è questo: fotografare è come meditare, trascendere sé stessi, tornare all’essenza delle cose.

Parlando di un’altra sfera di intervento del tuo lavoro, come esperto di autoimmagine, puoi dirci cosa si intende con questa definizione?

Autoimmagine è il nome che ho scelto per un mio workshop di autoritratto e per una mostra di 4 autoritrattiste – Francesca Dini, Fabiana Laurenzi, Flavia Fasano e Alessandra Quadri – che si terrà in autunno alla galleria Tobian Art di Firenze, organizzata dall’associazione FareFotografia di cui faccio parte. Il suo significato è controverso ed è bene specificarlo: quando si parla di autorappresentazione si possono fare normali autoscatti, oppure selfie con il proprio smartphone, o anche complessi progetti di autoritratto, che è bene ribadirlo è un genere fotografico a sé stante. A volte in un workshop è utile far approcciare all’immagine di sé in maniera graduale: prima fotografando la propria ombra, poi il proprio riflesso, poi parti del corpo, infine il volto. Io in un certo senso mi sono spinto più in là: esistono auto-ritratti che non comprendono l’autore, in quel caso si cercano soggetti esterni che, in un dato momento ci corrispondono e ci rappresentano come un vero e proprio autoritratto. Queste le chiamo autoimmagini. Tale ginnastica dello sguardo ci aiuta a parlare di noi stessi, ma al contempo ci porta a guardare nel mirino usando la sensibilità del nostro mondo interiore. Cose entrambe utili per un fotografo e oserei dire per una persona.

Poliedricità professionale: un benefit da saper gestire.

Negli ultimi anni ho portato avanti progetti fotografici astratti, utilizzando il mosso, il collage informatico, il cross-processing chimico – che è ottenuto sviluppando un negativo con il bagno chimico della dispositiva o viceversa – e con 37.4° arrivo alla fotografia termica. Tuttavia ho cercato di non staccarmi mai completamente dalla fotografia di rappresentazione, per garantire quella poliedricità di cui si diceva prima, recandomi annualmente a ritrarre le feste religiose nel Sud Italia e in particolare in Sicilia. Questo è un tema gigantesco per la storia della fotografia e per la caratura degli autori che ci si sono cimentati. A me è servito, oltre che fotograficamente, a rimanere in contatto con la mia parte transpersonale, quella che comunemente viene detta spirituale. Al contempo, insegnando presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, sono sempre in contatto con giovani menti creative, e a volte succede che, tra qualche decina di studenti, si trovino uno o due talenti che con il loro lavoro nutrono anche me.

Ultimamente ho formalizzato una fruttuosa collaborazione con uno spazio virtuale per la fotografia, si chiama non a caso, FareFotografia ed è un’associazione presente sul web e sui social che si occupa di organizzazione, produzione, consulenza, docenza e di ciò che serve sapere e fare, e fare bene nel grande mondo dell’immagine fotografica.

Nella doppia veste di fotografo e docente, dove ti spingerà il futuro delle tue attività?

Mi piacerebbe sapere la risposta… Posso solo dire che cercherò di favorire il più possibile la mia crescita e non andrò contro vento, mi limiterò a regolare le vele in base al vento che troverò e soprattutto alle condizioni del meteo, che, come sappiamo, può cambiare da un momento all’altro…

Carlo Pettinelli

Loredana De Pace

NOC SENSEI è un modo nuovo di vedere, vivere e condividere la passione per la fotografia. Risveglia i sensi, allarga la mente e gli orizzonti. Non segue i numeri, ma ricerca sensazioni e colori. NOC SENSEI è un progetto di New Old Camera srl

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