Voigtlaender Vitessa Flex e Vito III prototipo

Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; nel Dopoguerra l’azienda Voigtlaender di Brauschweig impostò un ambizioso programma di nuove fotocamere 35mm destinate ad arrivare sul mercato dal 1949 ai primi anni ’50; così, mentre il prestigioso acquisto del dipartimento ottico Albrecht Wilhelm Tronnier provvedeva a calcolare un’intera generazione di obiettivi ad alte prestazioni, i tecnici Voigtlaender concretizzavano apparecchi come la Vito II del 1949, la Vito III e la VItessa del 1950 o la Prominent del 1952, tutti accomunati da una notevole cura costruttiva e sovente da soluzioni tecniche ed ingegneristiche inedite e funzionali; in questa sede voglio descrivere 2 prototipi risalenti rispettivamente al 1949 e 1957 che non arrivarono alla produzione di serie ma sono comunque rifiniti e funzionanti e con caratteristiche meritevoli di approfondimento.

Gli apparecchi in questione sono la Vito III con Ultron 50mm f/1,9 non rientrante e la Vitessa Flex con mirino reflex; si tratta di esemplari unici passati all’incanto alcuni anni fa e ovviamente oggi sono preziosi oggetti da collezione.

Il più datato dei 2 prototipi è un corpo Vito III realizzato nel 1949; proprio in quell’anno Voigtlaender aveva commercializzato il modello Vito II, un compatto apparecchio 35mm equipaggiato con obiettivo Color-Skopar 50mm 1:3,5 su economico otturatore centrale Prontor S della Gauthier di Calmbach con tempi fino a 1/300”; l’obiettivo era montato su un soffietto e veniva estratto grazie ad un’anta frontale ribaltabile ed incernierata verticalmente che garantiva una notevole compattezza in posizione di riposo, col sistema ottico collassato all’interno del corpo; l’apparecchio, ancorchè ben costruito con materiali di buona qualità come da tradizione, era molto semplice e il mirino Albada non prevedeva un telemetro accoppiato, richiedendo la messa a fuoco su scala metrica.

 

 

Il prototipo completato sempre nel 1949 anticipava di un anno la vera Vito III prodotta in serie, era rubricato con la sigla PR 2059 e presentava caratteristiche radicalmente diverse e soluzioni ben più pretenziose della coeva Vito II; infatti questo esemplare prevedeva un telemetro accoppiato al mirino posizionato sopra la fotocamera e rinunciava in modo radicale alla compattezza del modello di serie adottando un luminosissimo obiettivo Voigtlaender Ultron 50mm 1:1,9 con messa a fuoco elicoidale e ingombrante montatura fissa anteriore che incombeva letteralmente; le caratteristiche del telemetro con le relative finestre anteriori, i corrispondenti nottolini rialzati laterali e lo sbalzo del gruppo obiettivo/otturatore sono completamente estranei all’estetica della Vito II e anticipano invece soluzioni e aspetto complessivo che ritroveremo poi 3 anni dopo nella famosa telemetro Voigtlaender Prominent.

 

 

Questo prototipo è letteralmente dominato dal massiccio modulo obiettivo/otturatore centrale, quasi incoronato da una serie di elementi sporgenti ricavati dal pieno per agevolare la presa mettendo a fuoco, e il corpo macchina risulta in subordine, quasi un semplice supporto funzionale per il vero protagonista; il telemetro sul top con le aperture per mirino e sistema di riscontro del fuoco e i nottolini laterali sollevati allo stesso livello e con varie godronature compongono un’estetica classica e basta osservare l’apparecchio per intuire il suo elevato livello costruttivo e la qualità dei materiali utilizzati.

 

 

La parte posteriore è molto semplice e scarna e si può apprezzare quanto sia minimale l’apertura per il mirino, una caratteristica che accomuna molti apparecchi di quest’epoca (i mirini d’azione o long-eyepoint erano al di là da venire) e che sicuramente faceva dannare i portatori di occhiali come il sottoscritto; notate il contafotogrammi ricavato alla base del nottolino di avanzamento del film tramite incisioni nel metallo e con numerazioni in chiaro ogni 5 fotogrammi, una soluzione minimale ma priva di controindicazioni.

 

 

La vista superiore del prototipo PR 2059 del 1949 mostra il coperchio del telemetro rimuovibile per interventi di manutenzione e soprattutto l’ingombrante modulo in metallo satinato, montato in posizione fissa e rigida, che sostiene l’obiettivo e l’otturatore centrale della Deckel di Monaco di Baviera; in questo caso le differenze fra questo prototipo Vito III del 1949 e la Vito III di produzione del 1950 sono davvero consistenti perché quest’ultima utilizza lo stesso sistema con anta ribaltabile e obiettivo/otturatore su soffietto estratti da un cinematismo di bielle presente nella Vito II (la principale differenza con quest’ultima consiste nell’anta incernierata in basso e non di lato), mentre il prototipo prevede un obiettivo fisso con montatura rigida e una ghiera di messa a fuoco sovradimensionata a diretto contatto col corpo; inoltre l’esemplare unico del 1949 utilizza anche un prototipo di Ultron 50mm1:1,9 che non ha riscontro nella produzione di serie, dal momento che le fotocamere Voigtlaender equipaggiate con un 50mm di tale famiglia prevedevano l’apertura 1:2.

 

 

Notate come la struttura, seppure ben fatta e realizzata con materiali di pregio, appaia un po’ artigianale con l’otturatore quasi incastrato a forza nel complesso, dettaglio del resto giustificabile in un prototipo sperimentale; criticabile anche la regolazione del diaframma con valori non equidistanti e indici letteralmente affastellati sulle chiusure minime, soluzioni provvisorie che si sarebbero sicuramente potute sistemare nell’eventualità della produzione di serie; l’obiettivo prevedeva anche una completa serie di riferimenti per la profondità di campo, da 1:2 ad 1:16, mentre le prese di forza ricavate dal pieno garantivano un grip eccellente su una ghiera di fuoco altrimenti eccessivamente ristretta.

 

 

Da momento che il dorso apribile è incernierato lateralmente, sul fondello non sono presenti i classici chiavistelli mirabilmente realizzati che troviamo in altri apparecchi 35mm compatti Voigtlaender e l’unico elemento degno di nota è l’attacco filettato per il treppiedi.

 

 

Col dorso aperto troviamo finiture un po’ spartane ed essenziali; la finestra del piano focale non prevede ante mobili ausiliarie a tenuta di luce perché l’otturatore resta con lamelle sovrapposte anche durante le fasi di carica; al suo riarmo provvede l’alberino metallico a destra della maschera del fotogramma, messo in rotazione dall’avanzamento della pellicola tramite il settore dentato superiore in presa nelle relative perforazioni; la rotazione dell’alberino movimenta una serie di rinvii meccanici che provvedono appunto a riarmare l’otturatore.

Questo prototipo ha consentito di sperimentare un nuovo obiettivo molto più luminoso di quelli adottati nei modelli precedenti e la calibratura del relativo telemetro, resosi necessario per la superiore criticità di fuoco a tutta apertura (ad f/1,9 la profondità di campo è troppo limitata per affidarsi ad un sistema a stima su scala metrica o con telemetro esterno e misure da riportare manualmente sul barilotto), tuttavia la struttura rigida e prominente dell’ingombrate obiettivo negava totalmente la pregevole compattezza dei corpi Vito con ottica collassata dietro l’anta mobile anteriore, pertanto esaurita la sua funzione sperimentale questo prototipo non ebbe un seguito commerciale, mentre la nuova Vito III del 1950 utilizzava un obiettivo Gaussiano di apertura 1:2 e un telemetro molto simile a quello del prototipo, replicando tuttavia la compattezza generale della precedente Vito II grazie al recupero dell’obiettivo estraibile su bielle articolate.

Un altro apparecchio 35mm di successo prodotto da Voigtlaender negli anni ’50 fu il modello Vitessa, lanciato nel 1950; in realtà la produzione dell’azienda sfornata in quella decade prevedeva vari modelli dalle caratteristiche base molto simili (fotocamera compatta, formato 24x36mm, otturatore centrale, obiettivo da 50mm con telemetro accoppiato), come se Voigtlaender si preoccupasse di mostrare al mondo la fantasia e genialità dei suoi tecnici senza preoccuparsi delle evidenti ridondanze e sovrapposizioni nella sua offerta commerciale, e anche la Vitessa in senso generale rientra in questa casistica, tuttavia con la specifica giustificazione di presentare soluzioni tecniche realmente originali, addirittura uniche, dalla doppia anta anteriore direttamente collegata alle bielle che estraggono l’obiettivo e la cui rotazione parziale comanda direttamente la messa a fuoco al lungo pulsante estraibile che con una sola pressione a fondo corsa avanza la pellicola e riarma l’otturatore, fino al rinvio angolare tramite una sequenza di sfere intubate.

 

 

La Vitessa prevedeva naturalmente una sistema di messa a fuoco con mirino galileiano e telemetro incorporato e in posizione di riposo, con ante chiuse ed obiettivo retratto, si trasformava in un piccolo lingotto facilmente trasportabile, quindi non c’era ragione per introdurre modifiche sostanziali, tuttavia nel 1957 uno dei tecnici solitamente coinvolti nella progettazione dei corpi macchina della Casa, Karl Guenther Behr, allestì un prototipo radicalmente modificato e dotato di specchio reflex con relativo mirino a pentaprisma, un modello rimasto esemplare unico.

Le ragioni di questo corpo sperimentale e anche un po’ assurdo, considerando che la compattezza della Vitessa veniva fatalmente compromessa, stanno forse nel fatto che in quel momento Karl Guenther Behr, Wilhelm Reiche e Werner Schacht stavano definendo il progetto per la nuova reflex 35mm ad otturatore centrale Voigtlaender Bessamatic, pertanto è possibile che il nuovo prototipo del 1957, denominato Vitessa Flex, fosse un “muletto” sul quale sperimentare le soluzioni relative a mirino e specchio reflex, con i quali l’azienda non aveva molta esperienza.

 

 

Questo documento costituisce l’intestazione del brevetto relativo alla nuova Bessamatic e la cui richiesta prioritaria tedesca venne formalizzata il 19 Settembre 1958 (quindi l’anno successivo all’allestimento del prototipo Vitessa Flex) proprio da Reiche, Behr e Schacht.

 

 

Il brevetto descrive in dettaglio alcune componenti interne ed evidenzia lo specchio reflex che troviamo anche sul prototipo Vitessa Flex di Karl Guenther Behr dell’anno precedente.

 

 

Questo estratto del brevetto statunitense conferma la presenza del “padre” del prototipo Vitessa Flex fra i creatori della successiva Bessamatic reflex.

 

 

 

La Vitessa Flex fu creata da Behr eliminando dalla Vitessa le componenti telemetriche, il soffietto per l’obiettivo, le bielle e le ante mobili anteriori e prevedendo nuovi sbalzi e volumi per accogliere il mirino a pentaprisma e il mirabox dello specchio reflex; per minimizzare in qualche modo lo stravolgimento estetico del modello originale, Berh ha sagomato lo sbalzo che racchiude lo specchio sfruttando lo sbalzo anteriore fisso della VItessa T lanciata nello stesso anno ed evidentemente già completamente progettata in azienda; in questo caso l’elemento rigido a sbalzo simula le forme delle 2 ante originali parzialmente aperte in posizione di lavoro.

 

 

La Vitessa Flex è quindi un curioso ibrido che sfrutta le caratteristiche proporzioni del corpo Vitessa di serie e anche il suo inconfondibile pistone estraibile ma lo snatura totalmente ibridandolo con i caratteristici stilemi estetici del corpo reflex; in realtà il risultato non è assolutamente sgradevole e appare anche funzionale, se non fosse che il modello di serie prodotto fino ad allora fornisce analoghe prestazioni in una struttura che a riposo risulta addirittura tascabile, ipotesi poco realistica invece con il prototipo reflex.

 

 

L’obiettivo è ragionevolmente compatto per non aumentare ulteriormente lo sbalzo dell’apparecchio e prevede 3 ghiere funzionali: una anteriore per la messa a fuoco, munita di presa di forza in plastica nera e scala in metri da infinito a 1m, una centrale con rilievi godronati a sbalzo che riporta sul frontale le aperture di diaframma comprese fra 2,8 e 22 e una posteriore con i tempi di posa dell’otturatore centrale Deckel Synchro-Compur da 1” a 1/500” + posa B.

Nel settore centrale deteriorato è visibile anche una doppia scala ASA – DIN per impostare la sensibilità del film, tuttavia la presenza eventuale di un esposimetro ad essa accoppiata non è documentata chiaramente: sul frontale, a sinistra del pentaprisma dove nel modello di serie troviamo la piastra rettangolare con gli elementi al selenio dell’esposimetro, nel prototipo è presente una finestra circolare dimensionalmente compatibile con un elemento al solfuro di cadmio (CdS), tuttavia all’epoca i classici fornitori tedeschi non rendevano ancora disponibile in commercio tale tecnologia e peraltro nell’apparecchio non ho notato il vano per la relativa batteria.

Nel prototipo Vitessa Flex l’obiettivo risulta intercambiabile come nella VItessa T che vedrà la luce in quel periodo, con l’otturatore centrale montato in posizione fissa sul corpo macchina e il gruppo di lenti a sbalzo davanti ad esso; questa soluzione decisamente migliorativa si sposava bene con la visione reflex che non poneva i problemi di inquadratura alle varie focali tipiche dei mirini galileiani..

 

 

Nella parte posteriore è visibile il mirino reflex, finalmente di generose dimensioni e aspetto moderno, e un minuscolo pulsante di sblocco evidenziato in arancio dall’utilizzo misterioso; è possibile che svincoli il nottolino cromato presente sul top a sinistra, forse sollevato da una molla, che consente di estrarre la spoletta sulla quale adescare il film 35mm e di ruotarla in fase di caricamento.

 

 

La parte inferiore del fondello estraibile è piuttosto affollata e troviamo una manovella ribaltabile per riavvolgere il film esposto, lo svincolo per il dorso stesso, il pulsante che mette a frizione il film e l’attacco per treppiedi; questa visuale conferma come lo sbalzo per il mirabox simuli l’estetica delle ante mobili originali; si notano anche elementi che consentono lo smontaggio dell’obiettivo intercambiabile.

 

 

Estraendo il fondello possiamo ammirare l’interno del prototipo Vitessa Flex con il flap ausiliario a tenuta di luce sul piano focale che consente la visione reflex con l’otturatore aperto senza velare involontariamente il film inesposto; sotto il piano focale stesso possiamo notare la sigla KB sgorbiata nel metallo, ovvero le iniziali di Karl Behr, mentre il fondello mostra la grande apertura per la manovella di riavvolgimento, l’asola sagomata per il chiavistello che blocca il dorso, il pulsante che mette a frizione il riavvolgimento e il foro per l’attacco filettato.

 

 

La Vitessa Flex mantiene anche il caratteristico contafotogrammi sul frontale con l’indicazione del tipo di pellicola in uso.

Anche nel caso del prototipo Vitessa Flex del 1957 le caratteristiche e gli ingombri delle strutture reflex  lo rendono meno desiderabile rispetto al modello di serie a telemetro con obiettivo retrattile, pertanto ritengo che abbia seguito la stessa sorte del prototipo Vito III del 1949 descritto in precedenza, fungendo da base sulla quale sperimentare soluzioni tecniche legate alla visione reflex e all’ottica intercambiabile con otturatore centrale che in seguito vennero applicate alla Bessamatic; occorre tuttavia ribadire che il sacrificio in compattezza imposto dalla struttura rigida anteriore (necessaria ad accogliere gli obiettivi intercambiabili con proprio elicoide di fuoco da anteporre all’otturatore centrale fisso) verrà accettato nello stesso anno anche dal modello di serie Vitessa T, rispetto alla quale l’unico ingombro effettivamente aggiunto sul prototipo Vitessa Flex di Karl Guenther Behr riguarda la struttura del pentaprisma.

La scelta di abbandonare la compattezza del modello originale e rinunciare alle 2 ante mobili collegate direttamente alle bielle che movimentavano l’obiettivo e consentivano la messa a fuoco grazie alla rotazione calibrata della ante stesse, scegliendo invece la soluzione “rigida” più ingombrante, si può eventualmente spiegare anche col timore che questo complesso sistema per focheggiare la Vitessa standard potesse creare col tempo malfunzionamenti legati a urti e usura dei componenti in movimento, senza contare che per aggiornare il modello alle ottiche intercambiabili non era fisicamente possibile mantenere il complesso sistema originale.

Questi prototipi hanno quindi svolto una importante funzione per definire e mettere a punto nuovi elementi e tecnologie per i successivi corpi di serie e costituiscono oggi modelli storici e giustamente di valore.

Un abbraccio a tutti; Marco chiude.

 

 

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