Vivitar Series 1 70-210mm Macro (prima parte)

Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; agli obiettivi del marchio Vivitar, prima gestito dalla Ponder & Best, Inc. di Los Angeles, CA e in seguito direttamente dalla Vivitar Corporation di Santa Monica, CA, ho già dedicato alcuni articoli focalizzati su modelli della famosa Series 1, la linea di qualità superiore al top di gamma che costituiva una nuova e interessante proposta commerciale nel campo delle ottiche intercambiabili universali, cioè non prodotte direttamente da un fabbricante di fotocamere; questo articolo è dedicato al famoso zoom 70-210mm Macro che risulta molto importante non soltanto per i contenuti tecnici, all’epoca innovativi, ma anche perché proprio questo modello fece esordire la Series 1, nel 1972, una gamma che seppe guadagnarsi una nomea lusinghiera in seguito infangata da un management sciagurato che nelle ultime fasi applicò tale marchio ad ottiche di qualità discutibile.

Quest’obiettivo svolse il ruolo di anticipatore per molte tecnologie e tendenze ed esso stesso fu lungamente evoluto dall’azienda, al punto che fra l’inizio degli anni ’70 e la seconda metà degli anni ’90 possiamo annoverare non meno di 7 varianti meccaniche e 5 diversi schemi ottici; si è trattato quindi di una sorta di laboratorio col quale sperimentare una corposa serie di innovazioni, anche se per la valenza storica e l’importanza dell’innovazione correlata ai tempi dedicherò la descrizione principalmente all’originale versione con apertura 1:3,5 e non prenderò in considerazioni le successive opzioni commercializzate dall’azienda in montatura autofocus.

 

 

Lo zoom Vivitar Series 1 70-210mm 1:3,5 Macro arrivò a inizio anni ’70 quando il riferimento d’eccellenza nel settore era l’agognato Nikon Zoom-Nikkor 80-200mm 1:4,5; il nuovo zoom di progettazione statunitense metteva sul piatto una gamma di focali leggermente più estesa (escursione 3x), un’apertura massima superiore di circa 1 f/stop e soprattutto un innovativo meccanismo di messa a fuoco macro, in grado di oltrepassare il valore minimo standard (1,9m) e scendere addirittura a 29,2cm dal piano focale (o, come sottolineava compiaciuta l’azienda nella documentazione, ad appena 8cm dalla lente frontale), con un rapporto di riproduzione massimo degno di un vero obiettivo macro e pari ad 1:2,2: un valore che consentiva di inquadrare a pieno formato un soggetto di appena 52,8×79,2mm.

Il nuovo obiettivo Series 1 metteva quindi a disposizione tutte le focali da 70mm a 210mm con un’apertura ancora sufficientemente ampia da scongiurare problemi ed oscuramenti con i telemetri di Dodin ad immagine spezzata nei mirini, la possibilità di riprese ravvicinate fino al limite della vera macro e una qualità d’immagine molto elevata per l’epoca, caratteristiche che nessuno zoom originale della stessa categoria era in grado di fornire simultaneamente.

 

 

Il Vivitar Series 1 70-210mm 1:3,5 Macro garantiva tali prerogative perché era il punto di arrivo di un lungo e complesso lavoro sinergico, anche difficile da gestire sul piano logistico, che ha finalizzato in parallelo il sofisticato gruppo ottico e l’innovativa parte meccanica con la complicazione della messa a fuoco macro indipendente, 2 elementi in effetti progettati da team separati e con sedi letteralmente agli antipodi che descriveremo meglio in seguito.

Questo modello faceva suo il sistema per la variazione di focale “one touch” introdotto da Nippon Kogaku e che assegnava sia tale funzione che la messa a fuoco ad una singola ghiera di grandi dimensioni, in grado di ruotare per focheggiare e scorrere in linea per modificare la lunghezza focale; questo elemento consentiva di regolare l’obiettivo da infinito a 1,9m, mentre per il settore “macro” l’intero cannotto con le linee di fede e le focali veniva sbloccato e ruotato in senso antiorario, predisponendo modifiche meccaniche in grado di arrivare ai fatidici 29,2cm di messa a fuoco minima, raggiunti sfruttando spostamenti specifici dei gruppi mobili dello zoom (trasfocatore e compensatore) e non il movimento del modulo di lenti adibito alla messa a fuoco convenzionale.

Queste caratteristiche, unite all’apertura massima molto favorevole, la struttura ancora compatta e la disponibilità di vari innesti per il corpo macchina resero tale modello molto interessante e il mercato lo accolse con favore.

 

 

Come ho già spiegato in dettaglio in altri articoli, fino a inizio anni ’90 la matricola di ogni obiettivo Vivitar consentiva di accertare l’azienda ottica in appalto che lo aveva effettivamente assemblato (Vivitar si limitava a definirne il progetto teorico, lasciando ad altre ditte del settore la fattura), dal momento che le prime 2 cifre corrispondevano ad un codice legato al produttore; nel caso del Vivitar Series 1 70-210mm 1:3,5 Macro tale codice è 22 e risulta assegnato alla nipponica Kino Precision Industries di Tokyo, famosa per gli obiettivi di buona qualità che produceva e commercializzava col marchio Kiron; come vedremo, in questo specifico caso la collaborazione con Kino Precision / Kiron non si è limitata alla semplice produzione in appalto di un articolo già perfettamente definito.

 

 

Con l’avvento della produzione di serie (la cui entrata a regime, come vedremo, fu un po’ travagliata), i creativi di Ponder & Best ebbero buon gioco per pubblicizzare il nuovo obiettivo che inaugurava la gamma Series 1, dal momento che gli argomenti per tesserne le lodi erano abbondanti e consistenti; naturalmente l’innovativa opzione macro fino quasi ad 1:2 era messa in particolare risalto perché costituiva una primizia e in seguito fece scuola, creando di fatto la nuova nicchia di mercato dei “macro-zoom” che negli anni ’70 e ’80 furoreggiarono.

L’obiettivo, in finitura completamente nera, prevedeva un diaframma automatico a 6 lamelle con aperture da 1:3,5 ad 1:22 (solo fino ad 1:16 per gli attacchi con posizione di automatismo EE a priorità di tempi oltre la massima chiusura) mentre l’ampia ghiera multifunzione era rivestita da un pad gommato con rilievi a sbalzo; la presenza del cannotto ruotante per finalizzare la funzione macro ha impedito di applicare i classici indici della profondità di campo colorati e con profilo ad iperbole che caratterizzavano gli Zoom-Nikkor di simile funzionalità.

L’obiettivo prevede 2 prese di forza nella parte inferiore che consentono la rotazione del cannotto in posizione macro, le lenti sono trattate con rivestimento multistrato Vivitar Multi Coating (VMC), l’attacco filtri anteriore è da 67×0,75mm, è previsto un paraluce applicabile a vite e il barilotto misura 157,5mm di lunghezza per 77,8mm di diametro mentre il peso è intorno ai 940g (suscettibile di leggere variazioni in funzione dell’attacco disponibile e di modifiche introdotte durante la produzione per risolvere i problemi riscontrati); curiosamente la dotazione iniziale era piuttosto scarna e il fabbricante oltre ai tappi anteriori e posteriori indicava fra gli accessori a corredo solamente un sacchetto deumidificante silica-gel (SIC).

 

 

Una curiosità di quest’obiettivo è il riferimento per la correzione di fuoco ad infrarosso, posizionato fra le linee di fede per la messa a fuoco convenzionale e macro; solitamente negli zoom lo spostamento di fuoco risulta differente alle varie focali, pertanto nei modelli “one-touch” con funzionamento “a pompa” la linea ha un profilo curvo perché ad ogni focale corrisponde una correzione e una rotazione diversa della ghiera, mentre nelle prime opzioni di questo 70-210mm 1:3,5 Series 1 la declinazione appare identica a tutte le focali.

Vediamo ora i complessi retroscena tecnici che hanno portato a questa sofisticata realizzazione; la parte ottica venne commissionata da Ponder & Best allo specialista Ellis Betensky che, nel 1969, aveva fondato con i colleghi Jacob Moskovich e Mel Kreitzer lo studio di progettazione Opcon Associates Incorporated con sede a Stamfort, CT; Betensky era un freelance di eccezionali capacità e nella sua carriera non progettò solamente svariati obiettivi per diverse aziende e per Dipartimenti della Difesa statunitensi ma addirittura collaborò al telescopio dello Skylab; Betensky ebbe buone relazioni con la società Perkin-Elmer, azienda che vantava elaboratori elettronici di grande potenza che concedeva in usufrutto al progettista e sui quali egli faceva girare un software di calcolo adattivo simile a quello messo a punto da Erhard Glatzel per Carl Zeiss, sfruttandone la potenza di elaborazione per i calcoli ottici del proprio studio Opcon Associates; proprio queste buone relazioni sia con Perkin-Elmer che con Ponder & Best probabilmente costituirono il termine medio che portò la prima a disegnare e produrre il Vivitar Series 1 600mm 1:8 Solid Cat.

L’innovativa parte meccanica che, come vedremo, era fondamentale per finalizzare la funzione macro, venne invece disegnata a Tokyo da Rinzo Watanabe che era uno specialista in questo settore della Kino Precision Industries, pertanto Kiron non si è limitata ad assemblare il prodotto finito ma ha svolto un ruolo fondamentale nella definizione delle componenti.

Come vedremo, la messa a punto dell’obiettivo si trascinò per almeno 4 anni, dai primissimi prototipi del 1970 solo ad uso interno fino alla stabilizzazione della serie nel 1974 con modelli definitivi, passando per gli esemplari di preserie mostrati ai giornalisti a partire dal 1972; analizziamo ora i contenuti tecnici grazie al relativo brevetto.

 

 

Sebbene i primi prototipi fossero stati assemblati da Kino Precision già nel 1970, il brevetto prioritario giapponese venne richiesto il 14 Giugno 1971 e questa è l’intestazione del corrispondente documento statunitense, sicuramente più comprensibile e richiesto il primo Giugno 1972; come si può osservare i progettisti sono proprio Ellis Betensky e Rinzo Watanabe e possiamo immaginare la difficoltà nel progettare in sinergia le componenti ottiche e meccaniche risiedendo rispettivamente sulla East Coast e a Tokyo; nonostante Rinzo Watanabe fosse formalmente a ruolo di Kino Precision il brevetto è a nome di Ponder & Best Incorporated, probabilmente grazie ad accordi pregressi per la successiva produzione ad opera dell’azienda nipponica.

 

 

Il testo del brevetto chiarisce l’intenzione di realizzare uno zoom con capacità di messa a fuoco macro e strutturato sul classico schema a 4 gruppi (focalizzatore, trasfocatore, compensatore del fuoco e relay lens posteriore), sfruttando il secondo e il terzo modulo mobili non soltanto per la variazione di focale ma anche per concretizzare la messa a fuoco macro, mantenendo in ogni caso una resa ottica elevata.

Questa duplice funzione viene assegnata ai 2 gruppi mobili grazie alla presenza di percorsi differenziati per le relative camme, selezionabili dall’utente.

 

 

Il lavoro di Watanabe-San di Kiron è apprezzabile in questo schema con vari elementi funzionali del barilotto; l’elemento chiave è la presenza di due differenti percorsi per la camma (in magenta) che durante la traslazione della ghiera funzionale movimenta i gruppi mobili di lenti: seguendo la pista gialla il movimento dei moduli di lenti modifica la focale da 70mm a 210mm senza alterare la messa a fuoco impostata; ruotando il cannotto sfruttando le prese di forza di colore ciano (47) la camma si posiziona sul tracciato rosso, e in questo caso azionando la ghiera col suo movimento in linea lo spostamento differenziato dei gruppi di lenti modifica radicalmente la messa a fuoco, impostandola su distanze molto più ravvicinate.

Questo è il segreto del Vivitar Series 1 70-210mm 1:3,5 Macro e si può ben immaginare quanto sia stata stretta la collaborazione fra Betensky e Watanabe, dal momento che in questo caso ottica e meccanica lavorano in rigida sinergia.

 

 

La messa a fuoco macro era quindi un’operazione del tutto indipendente dalla regolazione a distanze convenzionali, e l’esatta prassi nei due casi era questa: per distanze da infinito a 1,9 metri si ruotava regolarmente la ghiera convenzionale ed era possibile farlo a tutte le focali da 70mm a 210mm; per la ripresa macro era invece necessario far scorrere la ghiera verso il corpo macchina fino ad impostare la focale 210mm e quindi ruotare il cannotto dell’obiettivo in senso antiorario, sfruttando le 2 prese di forza laterali, fino a posizionare la linea di fede per la macro al posto di quella convenzionale; a questo punto la messa a fuoco non si effettuava più ruotando la relativa ghiera e i vari rapporti di ingrandimento si definivano facendola scorrere avanti e indietro, e ad ogni settaggio selezionato corrispondeva una differente posizione della pupilla di ingresso dell’obiettivo e una corrispondente distanza di ripresa; pertanto, nel settore macro, anziché mettere a fuoco il soggetto si selezionava un rapporto di riproduzione facendo scorrere il meccanismo “a pompa” e poi si spostava avanti e indietro tutto il complesso fino a centrare il fuoco.

Il massimo ingrandimento si finalizzava tenendo la ghiera di messa a fuoco tradizionale settata sulla distanza più ravvicinata possibile e facendola scorrere linearmente sulla posizione teorica di focale minima, 70mm, alla quale corrispondeva una distanza dal soggetto di 80mm dalla lente anteriore e un rapporto di riproduzione 1:2,2, mentre con la ghiera su 85mm avevamo 1:3,5, a 105mm 1:6,5 e a 135mm 1:11; approdando a 210mm l’ingrandimento era lo stesso dell’uso convenzionale perché, anche ruotando il cannotto in posizione macro, la camma che flotta i gruppi ottici è ancora nella posizione di corsa iniziale e il movimento dei gruppi stessi non è ancora stato differenziato dalla seconda guida specifica; a titolo di curiosità, con l’ottica in macro impostata su 70mm, in configurazione di massimo ingrandimento 1:2,2, con i flottaggi interni al focale effettiva risultava essere solamente 54mm.

Come si può intuire questa procedura nascondeva limitazioni operative perché se si metteva a fuoco un soggetto e la regolazione tradizionale risultava insufficiente, anche di poco, per accedere alla posizione macro anziché proseguire oltre con la rotazione della stessa ghiera occorreva togliere l’occhio dal mirino, predisporre meccanicamente l’obiettivo in tutt’altro modo e cercare a tentoni il rapporto di riproduzione necessario, finalizzando poi il fuoco con il movimento avanti e indietro di tutto il complesso; proprio questo dettaglio porterà alla decisione di riprogettare l’obiettivo e lanciare la versione rivista che discuteremo in seguito.

 

 

Altri schemi descrivono ulteriori dettagli di questa meccanica che, per la sua sofisticazione, ha richiesto una messa a punto di 4 anni e ulteriori modifiche in corsa dopo la produzione, molte non dichiarate: fra queste, 2 furono di una certa entità ed introdotte con certezza nel 1975 e nel 1978.

 

 

Questa parte dello stesso brevetto riguarda invece la parte ottica e naturalmente chiama in causa Ellis Betensky; in questo caso viene illustrata una sezione dello schema ottico settato evidentemente alla focale minima, e la corsa dei 2 gruppi mobili (il secondo e il terzo) in funzione della focale impostata; un terzo schema mostra invece il progredire del rapporto di riproduzione abbinato alla riduzione della distanza di messa a fuoco, rapporto che arriva quasi a 0,5x quando il soggetto si trova a circa 80mm dalla lente frontale.

 

 

Lo schema ufficiale dell’obiettivo di produzione abbinato alla sezione ottico-meccanica del brevetto evidenzia la corrispondenza fra le 2 configurazioni di lenti.

 

 

Il brevetto allega anche schemi con la correzione di certe aberrazioni (aberrazione sferica, astigmatismo e distorsione) a focale minima, intermedia e massima; è difficile valutare con precisione perché il fondo-scala è molto permissivo ma si può apprezzare come la distorsione, inizialmente a barilotto, si azzeri passando poi a cuscinetto alla focale massima, con valori assoluti non trascurabili (quasi 3% alla focale minima); è interessante osservare come il progetto originale corrisponda in realtà ad un 70-205mm, poi arrotondato a 70-210mm per ovvie ragioni di marketing.

 

 

Un retroscena curioso sulla gestione “politica” della proprietà intellettuale ci viene suggerito da un secondo brevetto,

 

 

Infatti in 28 Dicembre 1973 Rinzo Watanabe assieme al suo collaboratore Masatoshi Shimojima, entrambi in forza alla Kino Precision di Tokyo, depositarono un’ulteriore richiesta di brevetto statunitense a nome di Vivitar Corporation (la nuova ragione sociale nel frattempo subentrata) per gli identici componenti meccanici già visti nel brevetto precedente del 1972.

 

 

Infatti, se accostiamo la sezione completa presente nel brevetto U.S. 3.817.600 del primo Giugno 1972 alla corrispondente illustrazione riportata nel nuovo brevetto U.S. 4.097.124 del 28 Dicembre 1973 notiamo subito che si tratta della stessa immagine in fotocopia.

 

 

Anche altre illustrazioni del nuovo brevetto sono identiche a quelle precedenti e occorre precisare che questo secondo documento contempla solamente i dettagli meccanici ma non  quelli ottici, inserendo solamente il grafico con la corsa dei 2 moduli di lenti mobili perché è un dettaglio strettamente correlato alla meccanica.

Le ragioni di questa ridondanza sono solamente opinabili, tuttavia io credo che Vivitar Corporation e Kino Precision abbiano organizzato una manovra a tenaglia ai danni di Ellis Betensky che, essendo citato fra gli inventori nel documento U.S 3.817.600 del 1972 senza alcuna differenziazione in chiaro dei ruoli, automaticamente acquisiva diritti anche sulla parte meccanica descritta nel brevetto e opera di Watanabe-San, quindi un secondo brevetto che ribadisse la proprietà sulle stesse componenti solamente a nome di uomini Kiron escludeva la possibilità che Betensky e il studio di progettazione Opcon Associates, Inc. potessero eventualmente sfruttare l’innovazione della messa a fuoco macro a guide differenziate per progettare obiettivi analoghi destinati a terze parti ed eventualmente concorrenti della stessa Vivitar Corporation.

Naturalmente questa è solo la mia ipotesi.

Vediamo ora com’è strutturata la parte ottica dello zoom di produzione.

 

 

Come anticipato, l’architettura segue un classico schema da zoom a compensazione ottica, nel quale il primo modulo di lenti (magenta) si muove avanti e indietro solo quando si ruota la ghiera di messa a fuoco, modificando la relativa distanza, il secondo modulo (giallo) funge da trasfocatore e spostandosi modifica la lunghezza focale, il terzo modulo (rosso) è un compensatore di fuoco che si muove in modo asolidale rispetto al precedente e mantiene costante la distanza impostata alle varie focali, e infine il quarto modulo (verde) è un “relay lens” secondario, in posizione fissa, che focalizza e proietta verso la fotocamera quanto trasmesso dai gruppi precedenti.

In questo specifico caso esiste anche un’ulteriore sofisticazione perché con la funzione macro vengono nuovamente chiamati in causa il secondo e terzo modulo, ovviamente con un assetto differente rispetto alla funzione standard di variazione di focale.

Passando da 70mm a 210mm, sia il secondo che il terzo modulo arretrano, tuttavia con una corsa non uniforme e reciprocamente asincrona, perché inizialmente il secondo modulo arretra più velocemente del terzo, poi avvicinandosi alle focali più lunghe si assiste ad un’inversione e da circa 150mm fino a 210mm i 2 moduli si muovono in modo congruente, mantenendo praticamente invariata la loro distanza, come si può apprezzare nel relativo grafico presente in entrambi i brevetti.

 

 

Analizzando i dati grezzi di progetto e abbinandoli alle relative tipologie di vetri ottici, si può apprezzare come il progettista abbia dato priorità al contenimento dei costi, dal momento che su 15 lenti solamente una, la quattordicesima, è realizzata con un vetro lanthanum Flint agli ossidi delle Terre Rare, scegliendo tuttavia una tipologia dalle caratteristiche poco spinte e applicandola ad una lente di diametro ridotto; va quindi apprezzata l’abilità di Betensky che ha saputo ideare uno zoom di elevate prestazioni nonostante evidenti limiti di budget imposti dal committente.

Per il 70-210mm 1:3,5 Series 1 sono stati impiegati 9 differenti categorie di vetri ottici e il calcolo da parte di tecnici statunitensi fuori dal classico “giro” dei noti progettisti nipponici o tedeschi si può desumere anche da diversi tipi di vetro di impiego davvero poco frequente nelle ottiche disegnate in Germania o Giappone.

 

 

Analizzando i vetri utilizzati ho dedotto che il fornitore utilizzato da Kiron per la produzione era la vetreria nipponica Ohara, e osservando lo schema troviamo un Dense Flint SF1 (L1), un Dense Crown SK5 (L2), un Borosilicate Crown BK1 (L3), un Dense Flint SF11 (L4), un Barium Flint BAF11 (L5 ed L6), un Crown K5 (L7), un Flint F7 (L8), un Fluor Crown FK-5 (L9), un Dense Flint SF6 (L10), un Fluor Crown FK5 (L11 ed L12), un Barium Flint BAF9 (L13), un Lanthanum Flint LAF09 (L14) e un Light Flint LF2 (L15).

Le 3 lenti in vetro FK5 a dispersione contenuta, seppure non ancora ED, coadiuvano il controllo dell’aberrazione cromatica e nel caso specifico le 2 lenti cementate L9 ed L10 costituiscono un potente doppietto acromatico, con la prima lente a bassa rifrazione (1,487) e bassa dispersione e la seconda lente ad alta rifrazione (1,805) ed alta dispersione.

Sia i vetri che la tipologia dello schema non introducevano nulla di nuovo ma il mix complessivo ha dato vita ad uno zoom luminoso e di qualità molto buona.

 

(continua nella parte 2)

 

Marco Cavina.

 

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