Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; questo pezzo costituisce il settimo articolo della serie VINTAGE METER che si prefigge di monitorare aberrazioni e prestazioni MTF di obiettivi vintage o di modernariato, creando una scheda parametrica in modelli anche rari, dei quali non esista una omologa documentazione ufficiale o che non sono stati testati da riviste o istituti; questa opzione estremamente interessante per appassionati e collezionisti si concretizza sfruttando un sofisticato software di calcolo ottico professionale, il Synopsys Code V, ed è possibile grazie all’amichevole collaborazione dell’amico Mark Jeffs, progettista ottico da oltre trent’anni con trascorsi prestigiosi, che ringrazio di cuore per aver accettato di supportarmi; specifico che i numerosi diagrammi presentati non sono ottenuti da misurazioni dirette su un esemplare (con tutte le variabili legate a problemi di allineamento dovuti ad urti e cadute o agli effetti sull’immagine di polvere, aloni o scollature fra le lenti dopo svariati anni di esercizio) ma sono calcolati, partendo dagli esatti parametri costruttivi del sistema di lenti, grazie all’avanzato software di progettazione ottica, in grado di effettuare simulazioni molto precise ed attendibili sul rendimento effettivo dell’obiettivo prodotto secondo quelle specifiche.
L’obiettivo protagonista di questa tornata esce dalla prassi consueta di monitorare ottiche di focale normale ed alta qualità prodotte dai più famosi fabbricanti, una scelta condivisa di comune accordo con l’amico ottico perché modelli da 50mm dal nome altisonante, per quanto vintage, solitamente garantiscono prestazioni in ogni caso convincenti e questa serie di articoli rischia di divenire una sequela di elogi e apprezzamenti indifferenziati; per questa settima puntata abbiamo quindi scelto il VEB Carl Zeiss Jena Flektogon 20mm 1:4, un obiettivo progettato nella DDR di inizio anni ’60 che incarna un’indubbia valenza storica e tecnologica perché è stato il primo supergrandangolare da oltre 90° utilizzabile con apparecchi reflex ad apparire sul mercato e ad essere disponibile ad un prezzo tutto sommato popolare, alla portata di tutti i fotoamatori; a questo specifico modello ho dedicato un altro contributo per Nocsensei, più generalista, che ne descrive l’origine, le caratteristiche del gruppo ottico e le varianti nella serie, pertanto suggerisco a chi fosse particolarmente interessato al Flektogon 20mm 1:4 di dare un’occhiata anche a tale articolo.
Vediamo ora com’è stato sviluppato il suo gruppo ottico e quali sono le sue caratteristiche di comportamento.
Come accennato anche nell’altro articolo, il VEB Carl Zeiss Jena Flektogon 20mm 1:4 fu disegnato da Wolf Dannberg ed Eberhard Dietzsch e la richiesta di brevetto venne depositata l’11 Giugno 1963; l’obiettivo non venne quindi calcolato da Harry Zoellner, padre dello schema retrofocus Flektogon, perché a quei tempi stava lavorando a vari modelli della serie VEB Carl Zeiss Jena Apo-Germinar per arti grafiche ed altri obiettivi per utilizzi non convenzionali, e le sue attenzioni erano tutte rivolte a questi settori.
Il brevetto è molto dettagliato tuttavia risulta inutile ai nostri scopi perché dopo la presentazione del documento e prima della produzione di serie sono state introdotte varie modifiche sia geometriche che ai vetri utilizzati, pertanto non possiamo affidarci alla consueta tabella di dati grezzi del brevetto per realizzare le relative simulazioni.
Fortunatamente le conoscenze nel settore hanno permesso di accedere a tabelle con i dati originali di produzione uscite direttamente dal personal computer di uno dei progettisti, quindi si tratta di valori estremamente precisi e soprattutto congruenti con quelli effettivamente utilizzati; questi dati sono ancora più interessanti perché contengono sia i parametri del modello finale di serie che quelli del pre-design, cioè relativi all’ipotesi iniziale concretizzata dai progettisti prima della messa a punto dello schema.
Questa doppia serie di dati definisce appunto le caratteristiche ottiche di queste differenti versioni e si può notare immediatamente che il pre-design utilizza solamente 8 lenti mentre il più complesso modello di serie ne sfrutta 10; per quanto riguarda la focale, la lunghezza effettiva del modello di serie corrisponde a 21,076mm, quindi apprezzabilmente superiore al valore ufficialmente dichiarato e ovviamente il valore esatto di 20mm è stato scelto per rendere l’ottica più appetibile, lasciando intendere una copertura ancora superiore a quella reale.
Occorre annotare che i 3 vetri SSK10 presenti negli elementi L2, L3 ed L4 del 20mm di produzione contengono ossido di torio che è responsabile della nota, leggerissima radioattività.
Questa scheda mostra la sezione del 20mm 1:4 di pre-design ipotizzato all’inizio dei lavori; si tratta di un retrofocus con un obiettivo primario a 5 lenti e un modulo anteriore con 3 ulteriori elementi di grande diametro; è interessante notare che la prima lente è positiva con effetto convergente, una scelta anomala in un grandangolare che complica il relativo progetto ma aiuta a controllare aberrazioni come la distorsione, parametro che nei primi retrofocus con schema non simmetrico era molto più critico rispetto ai modelli simmetrici a ridotto spazio retrofocale; in effetti la distorsione prevista, con valore massimo pari a circa 3% a barilotto, risulta accettabile in un 20mm retrofocus di 60 anni fa, mentre altri difetti ottici come curvatura di campo, astigmatismo e aberrazione cromatica laterale evidenziano ancora correzioni di compromesso e congruenti con le limitate esperienze nel campo di quei tempi.
Passando invece agli schemi effettivi del modello di produzione, possiamo apprezzare come l’ampio spazio fra il modulo di lenti anteriori e l’obiettivo primario sia stato occupato da un grande doppietto collato, portando quindi le lenti utilizzate da 8 a 10; per quanto concerne le aberrazioni, in effetti la versione di serie non sembra aver introdotto particolari migliorie rispetto al pre-design con l’eccezione dell’aberrazione cromatica laterale, un difetto caratteristico dei grandangolari retrofocus prodotti fino a inizio anni ’90 e che, come vedremo, costituisce un po’ l’elemento determinante nella resa dell’obiettivo.
Lo schema in bella copia magistralmente disegnato dal caro amico Pierre Toscani partendo dalla tabella vista in precedenza mostra il complesso schema retrofocus con 3 gruppi cementati ed elementi posteriori di diametro molto ridotto rispetto a quelli anteriori; il punto f’ che definisce la lunghezza focale effettiva (come detto, circa 21mm) palesa inequivocabilmente la tipologia retrofocus dell’obiettivo, dal momento che la lente posteriore si trova ben 17,5mm davanti a tale punto; infatti lo spazio retrofocale di 38,59mm (necessario al movimento dello specchio reflex) corrisponde a 1,83 volte la lunghezza focale stessa.
Gli stessi parametri inseriti nel software di calcolo ottico Code V forniscono invece questo schema, ovviamente corrispondente al precedente; le caratteristiche ottiche e il diametro degli elementi posteriori non garantiscono la massima proiezione telecentrica teoricamente possibile con oltre 38mm di spazio retrofocale ma l’incidenza ai bordi è comunque ancora relativamente contenuta e non dovrebbe creare problemi utilizzando l’obiettivo in digitale.
Come di consueto, per simulare aberrazioni e rendimento è stato necessario definire alcuni parametri dei vetri utilizzati non indicati dalle tabelle originali, come ad esempio la dispersione parziale, operazione che richiede le conoscenze e l’esperienza di un progettista ottico anziano; la componente spettrale della luce adottata per le simulazioni è analoga alle altre tornate e comprende bande dello spettro da 656,3nm (rosso) a 404,7nm (limiti dell’ultravioletto); infine, per definire le curve MTF si è adottato il consueto standard Zeiss, cercando la migliore messa a fuoco in asse a tutta apertura e per 20 cicli/mm di frequenza spaziale e mantenendola poi invariata a tutte le aperture e in ogni zona del campo.
Simulando i diagrammi di astigmatismo/curvatura di campo e distorsione troviamo una sostanziale conferma delle curve viste nelle schede ufficiali condivise dai progettisti, con una distorsione a barilotto che arriva al 3% a 2/3 di campo e l’astigmatismo/curvatura di campo che confermano quanto già visto ma con uno spostamento sul campo di 500 – 700 micron, valori non trascurabili; l’aberrazione sferica longitudinale appare ragionevolmente corretta ma il piano si sposta apprezzabilmente con letture corrispondenti alle frequenze più corte dello spettro.
I diagrammi con i cosiddetti “transverse ray errors” confermano problemi legati all’aberrazione cromatica, evidenziati dalla misurazione in alto a sinistra corrispondente ai bordi del fotogramma e in orientamento tangenziale, con le curve corrispondenti alle frequenze più corte dello spettro che si distanziano nettamente dalle altre e sottendono problemi irrisolti in sede di progetto.
Vediamo ora i diagrammi con curve MTF calcolati dal software Code V; ricordo che queste curve definiscono il trasferimento di modulazione del contrasto dell’obiettivo, misurato da centro (sinistra) ai bordi (destra) alle frequenze spaziali di 10, 20 e 40 cicli/mm e per ciascuna di esse vengono realizate 2 letture, una in orientamento sagittale, con linee di mira parallele alla semidiagonale che dal centro va ai bordi (curva continua) e l’altra in orientamento tangenziale, con linee di mira perpendicolari alla semidiagonale di campo (linea gemella tratteggiata).
Naturalmente, considerando i diagrammi ottenuti, occorre sempre ricordare che in questo caso non stiamo analizzando un tranquillo 50mm il cui progetto è facile e ormai sperimentato bensì un supergrandangolare retrofocus calcolato a inizio anni ’60, pertanto è lecito aspettarsi livelli meno entusiasmanti del solito; a tutta apertura 1:4 i valori sono abbastanza omogenei sul campo, con un leggero picco sull’asse, però in termini assoluti il trasferimento di contrasto non è molto elevato per un’apertura come questa, specialmente alle basse frequenze spaziali come 10 cicli/mm (curve blu), ad indicare un macrocontrasto non eccezionale; un elemento interessante che costituirà il leit motiv di tutte le misurazioni è l’evidente differenza nelle coppie di curve misurate alle stesse frequenze spaziali, con quella tangenziale che presenta valori sensibilmente più bassi di quella sagittale; in questo caso l’anomalia è causata da aberrazione cromatica laterale, i cui relativi fringings scompongono il bordo delle mire ad alto contrasto in orientamento perpendicolare rispetto alla diagonale e invece non hanno effetti apprezzabili sulle mire in orientamento parallelo; questa problematica è abbastanza comune in grandangolari retrofocus di progettazione datata ed è stata risolta radicalmente solo in tempi relativamente recenti; è comunque apprezzabile che anche ai bordi estremi non sia presente un drop completo, quindi anche in presenza di un contrasto contenuto rimane un potere risolutivo residuo anche in tale zona, mentre molti grandangolari anche più moderni prevedono prestazioni molto superiori nelle zone centrali e mediane ma gli ultimi millimetri di semidiagonale sono volutamente dimenticati, con valori che spesso scendono fisicamente a zero negli angoli estremi, un comportamento magari accettabile nel paesaggio ma fastidioso con riprese di architettura ed elementi geometrici dettagliati anche ai bordi.
Chiudendo di 1 f/stop ad f/5,6 i valori MTF migliorano percettibilmente a tutte le frequenze spaziali ma l’incremento si manifesta soprattutto al centro dell’immagine e passando nelle zone esterne la reattività dell’obiettivo alla diaframmazione è sempre meno convinta e ai bordi estremi le differenze rispetto ad 1:4 sono inavvertibili; notate anche in questo caso la netta differenziazione nei valori sagittali e tangenziali: ad esempio, a 40 cicli/mm (la curva più critica che definisce i dettagli fini dell’immagine) se ci spostiamo sulla semidiagonale del formato fino a 9mm da centro troviamo quasi il 60% di trasferimento di contrasto con mire parallele alla semidiagonale stessa e appena il 17% con mire perpendicolari alla medesima, una chiara indicazione di percettibile aberrazione cromatica laterale, mentre gli effetti della curvatura di campo (probabilmente accettata per ridurre l’astigmatismo e tenere i piani dei dettagli con orientamento sagittale e tangenziale ravvicinati fra loro) sono mitigati dall’elevata profondità di campo di un grandangolare come questo.
Chiudendo ad 1:8 l’asse del fotogramma ha già terminato la sua rincorsa e peggiora leggermente rispetto ad 1:5,6 per diffrazione, mentre le zone periferiche e marginali migliorano fino a valori non eccelsi ma adeguati ad ottenere un’immagine nitida, tuttavia questo incremento generalizzato vale solamente per le curve sagittali, con mire parallele alla semidiagonale, mentre i valori tangenziali con le stesse mire ruotate di 90° rimangono molto più indietro e soprattutto per la curva da 40 cicli/mm (colore rosso) la differenza diviene abissale, perché nello stesso settore citato prima a circa 10mm dall’asse troviamo il 73% di trasferimento di contrasto con mire ad orientamento sagittale e poco più del 10% con mire tangenziali, un comportamento che tradisce una vistosa aberrazione cromatica laterale.
Chiudendo il diaframma ad 1:11, utile a volte per immagini metafisiche con tutto a fuoco dal primissimo piano a infinito grazie all’estesa profondità di campo disponibile a tale apertura con una focale così corta, il comportamento rimane identico a quello visto ad 1:8, semplicemente tutte le curve si afflosciano leggermente per l’ineluttabile effetto della diffrazione; va comunque detto che il comportamento visto ad 1:8 ed 1:11 è simile a quello di molti grandangolari di vecchia generazione, anche blasonati, nei quali invariabilmente il residuo di aberrazione cromatica destruttura le linee perpendicolari alla semidiagonale di campo, riducendone il dettaglio e il contrasto nel passaggio chiaro/scuro; i valori sagittali del Flektogon a queste aperture sono tuttavia piuttosto buoni fino ai bordi e nell’uso pratico mascherano parzialmente gli effetti dell’aberrazione cromatica laterale.
Questo ulteriore schema descrive chiaramente il problema: sono infatti presenti solamente le curve delle mire lette in orientamento tangenziale a 40 cicli/mm di frequenza spaziale per le aperture 1:4, 1:5,6 ed 1:8 e come si può osservare, mentre in orientamento sagittale i valori miglioravano anche percettibilmente chiudendo il diaframma, con quello tangenziale tendono a plafonare e restare molto simili a quelli visti a tutta apertura, addirittura con certe zone ad 1:8 su quote inferiori rispetto ad 1:4; questo comportamento, come ripeto comune a molti grandangolari retrofocus della prima ora, in molte tipologie di soggetti non penalizza visivamente in modo apprezzabile mentre gli effetti sono più tangibili in presenza di strutture ed elementi geometrici a contrasto in foto urbanistica e di architettura.
Per quanto riguarda la caduta di luce ai bordi, bestia nera dei classici grandangolari simmetrici con ridotto spazio retrofocale, nelle versioni retrofocus tende ad essere fisiologicamente più ridotta, tuttavia nel nostro caso stiamo parlando di un supergrandangolare da 93° di campo effettivi e quindi a tutta apertura 1:4 l’illuminazione agli angoli si riduce a meno del 30% rispetto all’asse, con una perdita di quasi 2 f/stop, tuttavia mentre con i simmetrici la differenza tende a rimanere quasi costante anche diaframmando, nel Flektogon retrofocus se chiudiamo il diaframma si attenua immediatamente e arrivando ad 1:8 l’illuminazione ai bordi supera il 60%, un valore che nell’uso pratico rende la vignettatura quasi inavvertibile.
Come accennavo, la questione dell’aberrazione cromatica laterale nei grandangolari retrofocus spinti è stata una dei principali cimenti dei progettisti per molti anni, finchè Karl-Heinz Schuster di Carl Zeiss Oberkochen mise a punto uno schema da 90° molto sofisticato con 15 lenti ed utilizzando nuovi vetri ai fosfati e al piombo-boro dotati di dispersione parziale anomala molto accentuata che gli hanno consentito di correggere perfettamente tale difetto; lo schema venne poi sfruttato nel Distagon 21mm 1:2,8 T* per Contax/Yashica del 1992 e diede il La ad una nuova generazione di ottiche retrofocus, quelle moderne; ai tempi del Flektogon invece i progettisti non avevano ancora modo di correggere il difetto a tali livelli, dettaglio confermato se osserviamo le caratteristiche del modello che andò a sostituire il nostro 20mm 1:4, cioè il Flektogon 20mm 1:2,8.
Infatti questo nuovo modello venne disegnato una dozzina di anni dopo il precedente di minore apertura e utilizzando uno schema ottico molto più moderno e allineato ai modelli giapponesi dell’epoca, tuttavia se osserviamo questo diagramma con le curve MTF misurate su un esemplare alla Zeiss di Oberkochen dal fu Dr. Hubert Nasse ci accorgiamo subito che l’obiettivo non presenta soltanto un vistoso flesso fra l’eccellente asse e le zone periferiche molto meno entusiasmanti ma esibisce anche la vistosa caduta delle curve in lettura tangenziale notata in precedenza col 20mm 1:4; stando a quanto riferito dal Dr. Nasse, anche in questo caso il fenomeno è dovuto ad aberrazione cromatica laterale, quindi la questione irrisolta col Flektogon 20mm 1:4 si è trascinata anche nella successiva versione 1:2,8.
A mero titolo di curiosità statistica, un’ulteriore variabile con questi obiettivi d’oltre Cortina è anche la costanza qualitativa nell’ambito della serie, legata a tanti fattori troppo complessi da descrivere in questa sede, tuttavia è curioso osservare in queste 2 prove eseguite all’epoca da riviste su esemplari nuovi di Flektogon 20mm 1:2,8 il comportamento radicalmente differente esibito dalle ottiche testate: se nella prova di “Fotografare” il comportamento nelle varie zone del campo può rispecchiare realisticamente le aspettative per un gruppo ottico di questo tipo, nel diagramma col test de “Il Fotografo – Mondadori” l’asse del fotogramma (linea continua) prevede invece valori scadenti a tutte le aperture tranne quella più chiusa, ad indicare evidenti problemi di allineamento degli elementi ottici dello schema.
Il VEB Carl Zeiss Jena Flektogon 20mm 1:4 è stato quindi un modello storico che ha finalmente consentito di sfruttare su reflex 35mm un angolo di campo superiore a 90° con inquadratura e messa a fuoco diretta e al momento del lancio, 1963, non aveva rivali sul mercato; ovviamente valutare le prestazioni col metro odierno di fotografi abituati ai grandangolari attuali, fissi e zoom, calcolati con i più moderni software, vetri evoluti e un’autentica profusione di superfici asferiche e lenti a bassissima dispersione o a dispersione anomala, risulta decontestualizzato, anche perché ho avuto testimonianza diretta dai progettisti che a quel tempo, nella VEB Carl Zeiss Jena in DDR, le risorse a disposizione erano piuttosto limitate, partendo dai vetri ottici ed arrivando alle macchine operatrici di precisione, pertanto la semplice concretizzazione del progetto e la relativa produzione in serie a costi competitivi è già da considerarsi un successo; naturalmente l’obiettivo non garantisce la resa brillantissima e nitida fino ai bordi alla quale siamo ormai abituati e l’aberrazione cromatica laterale influisce sulla resa dei dettagli geometrici o con passaggi ad alto contrasto, tuttavia l’intelligente progettazione ha messo a frutto le competenze del tempo garantendo in ogni caso una riproduzione accettabile fino ai bordi; pertanto, se si considera il value for money, va sicuramente considerato un obiettivo di successo perché apriva un mondo di nuove interpretazioni della realtà mettendolo alla portata di qualsiasi portafoglio, e in quel primo scorcio degli anni ’60 le sue prestazioni complessive si devono considerare assolutamente adeguate.
Un abbraccio a tutti; Marco chiude.
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