Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; fin dalle prime fasi della fotografia si è manifestata l’esigenza di obiettivi per ritratto e figura ambientata che delineassero il soggetto senza indulgere fastidiosamente sulla calligrafica nitidezza dei dettagli più fini, affrancando i tratti del volto e la pelle del soggetto da una minuziosa ed impietosa cernita delle più piccole imperfezioni: la fotografia che replicava la pittura, in sostanza, delineando l’insieme senza mettere a fuoco il singolo particolare.
Fecero dunque la loro comparsa sul mercato vari modelli di obiettivi a fuoco morbido, quasi tutti in grado di gestire il grado di ammorbidimento, sia modificando il quoziente di aberrazione sferica sottocorretta col movimento di certe lenti grazie ad una specifica ghiera, sia generando una maschera secondaria flou sovrapposta a quella primaria sufficientemente nitida grazie all’introduzione di diaframmi aggiuntivi “a setaggio”, muniti di fori che contribuivano a generare la maschera secondaria lasciando passare luce dalle parti periferiche delle lenti, con aberrazione sferica sottocorretta; quest’ultima tipologia è quella che si è affermata, arrivando fino a noi, e l’obiettivo simbolo di tale categoria è sicuramente il Rodenstock Imagon.
L’imagon nacque dall’idea del fotografo Heinrich Kuehn che svolse un ruolo di pioniere, sperimentando in prima persona – negli anni ’20 – varie soluzioni per mettere a punto il sistema soft focus più efficiente; le sue idee furono concretizzate da Franz Staeble di Monaco di Baviera, che disegnò un doppietto acromatico rovesciato cui andava anteposto un Siebblende, cioè un diaframma metallico ad apertura fissa munito di una serie di fori nella sezione oscurante; l’obiettivo fu commercializzato in Germania a fine anni ’20 con la denominazione Anachromat Kuehn e a inizio anni ’30 i diritti furono ceduti all’azienda Rodenstock, la quale modificò il nome in Tiefenbildner Imagon (poi semplicemente Imagon), producendolo per 60 anni consecutivi, fino al 1990, in una gamma di focali da 120mm a 480mm; l’eccezionale immagine mostra proprio un Tiefenbildner Imagon da 30cm di focale della prima ora montato sulla fotocamera artigianale che fu utilizzata da Heinrich Kuehn in persona; notate la serie di diaframmi mobili che, pur simulando uno specifico valore di chiusura, prevedono una batteria di fori perimetrali attraverso i quali viene generata una maschera secondaria dell’immagine, prodotta dalle zone periferiche con aberrazione sferica sottocorretta, che si sovrappone a quella primaria prodotta dai fasci luminosi che passano dal foro centrale, dove la correzione è superiore; questa doppia maschera produce il classico effetto soft-focus, con un’immagine sufficientemente leggibile ma priva di dettagli finissimi e con una caratteristica riproduzione delle alte luci.
Le ultime focali prodotte furono da 200, 250 e 300mm con apertura H= 5,8 ed H=6,8 (valore effettivo); col tempo gli otturatori centrali si evolsero e venne previsto anche un corto paraluce a sbalzo davanti al Siebblende, tuttavia la semplice struttura ottica rimase invariata.
Questa scheda è una delle ultime dedicate alla gamma Imagon, quando la sua parabola era ormai in dirittura di arrivo; era possibile ordinare i 3 obiettivi, in grado di coprire formati da 4×5” e 5×7”, con una vasta gamma di otturatori centrali e anche in montatura semplice, tuttavia , nonostante l’estetica del prodotto fosse stata aggiornata con un design più moderno, lo schema ottico era rimasto quello degli esordi: un doppietto acromatico invertito posteriore con un diaframma a setaccio anteriore; l’unica miglioria in questo senso riguarda l’applicazione di un filtro neutro anteriore, aggiunto con l’unico scopo di sigillare il sistema e impedire che polvere o impurità entrassero nell’otturatore attraverso i fori degli speciali diaframmi.
Il Rodenstock Imagon fu quindi l’obiettivo soft focus per antonomasia, tuttavia ha sempre portato in dote un limite funzionale: sebbene fosse consentito gestire ed attenuare l’effetto soft-focus utilizzando diaframmi forati di tipologie diverse, non risultava comunque possibile (qualora si presentasse la necessità) ottenere un’immagine perfettamente incisa, come quella normalmente prodotta dai classici obiettivi di grande formato; questo dettaglio ci introduce alla vera protagonista di questo articolo, cioè la gamma di obiettivi soft-focus per grandi formati Fujinon SF (o SFS, come venivano pubblicizzati sul nostro mercato).
La serie di obiettivi Fujinon SF a fuoco morbido integrava un ricco assortimento di ottiche per grandi formati creato e commercializzato da Fuji Photo Optical Co. (ora Fujinon) a partire dagli anni ’70; questi obiettivi coprivano ogni settore della routine professionale e per costruzione, tecnologia e resa ottica fronteggiavano in modo paritetico i prodotti dei marchi più famosi ed affermati nel settore, cioè Schneider e Rodenstock; nel caso della serie SF gli obiettivi condividevano le scelte tecniche di fondo e integravano alcune soluzioni ampiamente viste nell’Imagon, pietra di paragone della categoria, come ad esempio i diaframmi intercambiabili a setaccio, tuttavia – come vedremo – l’azienda giapponese non si limitò a replicarle pedissequamente.
La linea Fujinon SF comprendeva due obiettivi da 180mm 1:5,6 e 250mm 1:5,6, rispettivamente montati su otturatore centrale Copal #1 e Copal #3; era anche presente un terzo obiettivo (commercializzato solo su alcuni mercati, fra i quali non l’Italia) da 420mm 1:5,6, fornito in montatura semplice; i tre obiettivi, chiusi ad f/22, garantivano un angolo di campo da 58° e il diametro del cerchio di copertura era rispettivamente pari a 200mm, 300mm e 500mm, consentendo di coprire formati fino a 12×16,5cm, 20x25cm e 28x35cm; i tre obiettivi prevedevano attacco filtri da 46mm, 67mm e 82mm mentre il peso era rispettivamente 240g, 550g e 980g; questa scheda tecnica introduce già un elemento chiave che distingue i Fujinon SF dai prodotti analoghi della concorrenza: l’utilizzo di uno schema ottico a 3 lenti.
Infatti, analizzando la sezione, scopriamo una struttura a tripletto, con 3 elementi ottici separati e la classica lente divergente centrale, un sistema “completo” e più complesso rispetto al semplice doppietto invertito presente nel Rodenstock Imagon; nello spazio fra la prima e la seconda lente trovano posto l’otturatore centrale, il diaframma ad iride regolabile ed anche il diaframma a setaccio intercambiabile: quest’ultimo si inserisce sul castone posteriore della prima lente, dopo averlo svitato dalla montatura dell’otturatore; effettuata quest’operazione si rimette al suo posto l’elemento, con il diaframma aggiuntivo ora posizionato fra la prima lente e l’otturatore.
Nella brochure italiana dedicata a questa linea di ottiche per grande formato, gli obiettivi soft venivano denominati SFS e, come si può osservare, il modello superiore da 420mm 1:5,6 era escluso dalla gamma; anche in questo caso l’insolito schema a 3 lenti in 3 gruppi viene messo in evidenza.
Gli obiettivi Fujinon SF condividevano la classica estetica delle ottiche per grande formato su otturatore centrale; nel caso del modello da 180mm qui illustrato, l’otturatore giapponese Copal 1 consente tempi di posa da 1” ad 1/400” + B e T, ovviamente con sincronizzazione flash totale, e prevede 3 leveraggi che consentono di chiudere il diaframma, riarmare l’otturatore e aprirlo per la messa a fuoco, mentre le lenti erano protette da normali tappi a pressione brandizzati; la scala delle aperture, graduata da 1:5,6 ad 1:22, si trova sul fianco dell’otturatore, servita da un indice mobile metallico collegato al relativo leveraggio di controllo, e come vedremo presenta specifiche peculiarità.
La scala delle aperture risulta anomala perchè, con chiusura del diaframma primario fra 1:5,6 (tutta apertura) ed 1:11-16, i valori effettivi di trasmissione luminosa sono differenti, a seconda che si utilizzi soltanto il diaframma ad iride, in assenza di quelli secondari a setaccio, oppure che uno di essi sia stato aggiunto; infatti, i diaframmi aggiuntivi introducono variabili particolari, perché la loro chiusura corrisponderebbe teoricamente ad un valore predefinito, tuttavia la serie di 24 fori presenti sulla superficie dell’ostruzione lascia passare una certa quantità di luce aggiuntiva, pertanto la trasmissione effettiva è superiore, e a tutto questo si aggiunge anche l’eventuale chiusura supplementare del diaframma ad iride, che può coprire parzialmente la serie di fori sulla ostruzione di quello rimovibile.
Proprio il fatto che i diaframmi metallici a disco prevedano un’ostruzione di chiusura reimpostata fa si che, quando sono montati, la chiusura dell’iride primario comporti una variazione di poche frazioni di f/stop anche chiudendo 2 f/stop interi (da f/5,6 ad f/11) perché la riduzione del flusso luminoso prodotta dalla chiusura dell’iride mobile è limitata alla quantità di luce che passa dai 24 fori che vengono progressivamente oscurati, tuttavia la maggioranza del flusso luminoso era già schermato dal disco metallico di diametro prefissato.
Pertanto, impostando f/5,6 sull’iride mobile, avremo un T= 5,6 con il solo diaframma dell’otturatore (numero bianco), T=8 usando il setaccio con apertura più ampia e marker giallo (numero giallo) e T= 10 applicando il secondo setaccio con apertura più ridotta e marker rosso (numero rosso); questi valori non coincidenti procedono col diaframma a setaccio “giallo” fino a T=10 (cui corrisponderebbe, rimuovendolo e sfruttando solo l’iride, un f/9,5) e con quello “rosso” fino a T=12 (cui corrisponde nel diaframma ad iride una chiusura di f/11); oltre questi rispettivi calori la chiusura del diaframma primario ad iride si sovrappone al profilo di quelli a setaccio, rendendo ininfluente la loro presenza e quindi normalizzando i valori impostati.
Il massimo effetto flou si ottiene con obiettivo “nudo” e diaframma spalancato ad 1:5,6 mentre, volendo chiudere, è sempre preferibile parzializzare l’apertura inserendo una delle due griglie forate perché la presenza di un diaframma a setaccio in luogo di quello convenzionale, completamente oscurato, produce un effetto flou più marcato e gradevole proprio perché avviene la netta sovrapposizione fra la maschera d’immagine più nitida generata all’interno del foro centrale e quella più indistinta prodotta dai 24 fori perimetrali; naturalmente il diaframma mobile “giallo”, con una chiusura più modesta, produce un flou più evidente di quello “rosso” e in entrambi i casi è possibile graduare l’entità dell’effetto andando a chiudere il diaframma ad iride ed oscurando parzialmente la serie di 24 fori, azione che si può controllare direttamente a vista.
Proprio la presenza di aberrazione sferica sottocorretta genera uno spostamento evidente di fuoco introducendo una chiusura di diaframma, quindi è consigliabile effettuare sempre la messa a fuoco dopo aver già impostato il valore di lavoro che si utilizzerà per lo scatto finale.
In ogni caso, l’elemento più interessante di questa serie di ottiche Fujinon SF si nasconde nel suo schema ottico a tripletto: infatti, come confermato anche da questa pagina di istruzioni, l’aberrazione sferica sottocorretta viene annullata quasi completamente chiudendo il diaframma primario ad 1:16 ed oltre (la scala sull’otturatore è graduata solamente fino a 1:22 ma il comando consente di andare liberamente oltre, impostando valori decisamente più chiusi), e questo fornisce al fotografo un’eccezionale libertà creativa perché con lo stesso obiettivo può realizzare immagini flou, leggermente morbide o addirittura convenzionali, sebbene non al vertice dell’incisione; proprio questa possibilità di annullare completamente l’effetto flou e di coprire esigenze molto differenti con un singolo obiettivo, senza necessità di sostituirlo o portare al seguito altri esemplari, costituisce il punto di forza dei Fujinon SF e anche la ragione per cui li possiamo considerare un autentico passo avanti rispetto al classico obiettivo Rodenstock che aveva dominato le scene per decenni.
Un abbraccio a tutti; Marco chiude.
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