Nascita degli obiettivi grandangolari retrofocus per reflex

Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; gli obiettivi grandangolari, a mio avviso, costituiscono la più importante conquista dell’ottica fotografica, strumenti che non solo assecondano la naturale facoltà della percezione visiva di includere una scena di ampio respiro ma permettono anche riprese oggettivamente impossibili, in spazi stretti e fronteggiando soggetti monumentali; se a questi indubbi meriti aggiungiamo la caratteristica manipolazione della prospettiva che ha definito un nuovo linguaggio espressivo e il mood stesso di tantissimi fotografi, possiamo solamente benedire le circostanze che hanno favorito il loro avvento.

In realtà lo sviluppo tecnico iniziale di questa categoria fu più semplice di quanto si immagini, e già nella seconda metà del XIX Secolo esistevano obiettivi supergrandangolari rettilineari in grado di coprire fino a 120° di campo, valore eccezionale anche oggi; questo exploit fu largamente facilitato dall’utilizzo di schemi ottici normali, nei quali la distanza retrofocale utile fra il vertice della lente posteriore e il film è proporzionale alla lunghezza focale stessa dell’obiettivo; ottiche grandangolari implicavano focali molto corte e, di conseguenza, anche uno spazio retrofocale utile limitato, tuttavia l’impiego di fotocamere prive di specchio reflex non poneva limitazioni di sorta e l’ultima lente poteva arretrare liberamente verso il piano focale.

Questa situazione mutò radicalmente quando le esigenze tecniche dell’apparecchio da ripresa iniziarono ad esigere uno spazio retrofocale sempre più ampio: in questo caso la progettazione degli obiettivi grandangolari andava concettualmente rivista dal foglio bianco, perché lo spazio utile concesso dagli schemi di tipo simmetrico risultava largamente insufficiente al movimento dello specchio, un problema che si acuiva procedendo verso focali più corte e angoli di campo più spinti; si rese quindi necessario un tipo di progettazione definita retrofocus, nella quale opportuni accorgimenti, che complicavano molto lo schema ottico e rendevano difficile il controllo delle aberrazioni, permettevano di svincolare la relazione fra lunghezza focale e relativo spazio retrofocale, aumentando quest’ultimo fino a soddisfare le esigenze; in questo articolo desidero evitare eccessivi approfondimenti e complicazioni tecniche, cercando di rimanere sul piano divulgativo; ecco quindi uno schema semplificato che mette a confronto un obiettivo grandangolare normale con un retrofocus.

 

 

Nel primo modello è visualizzato concettualmente un obiettivo normale, con la relativa distanza retrofocale proporzionale alla lunghezza focale, e quindi molto limitata in caso di grandangolari; nel secondo schema è presente un obiettivo retrofocus, nel quale un modulo divergente viene aggiunto anteriormente, con l’effetto di proiettare la coniugata-immagine sul piano focale ad una distanza molto superiore, risolvendo il problema; naturalmente lo schema semplificato non lascia intuire le nuove problematiche da affrontare nella correzione delle aberrazioni, delle quali parleremo in seguito.

 

 

Questo schema mette a confronto 2 obiettivi supergrandangolari Nikkor da circa 90°-94° di campo: uno di essi, il Nikkor-O 2,1cm 1:4 del 1959 per Nikon S e Nikon F, prevede uno schema simmetrico tradizionale, più semplice, ad 8 lenti in 4 gruppi, però l’ultima lente dello schema arriva a circa 1 centimetro dal piano focale, impedendo di fatto il movimento dello specchio reflex e richiedendo quindi una montatura speciale rientrante che impone di sollevare lo specchio prima di applicare l’obiettivo, impedendo quindi la lettura esposimetrica TTL e anche la messa a fuoco reflex, mentre l’inquadratura viene composta approssimativamente con un mirino esterno; l’altro esemplare, lanciato nel 1984, è il Nikkor Ai 20mm 1:2,8 S e il suo schema retrofocus, molto più complesso e con ben 12 lenti in 9 gruppi, lascia intuire le difficoltà incontrate nella sua progettazione; tuttavia, questo tipo di schema retrofocus prevede così tanto spazio dietro l’ultima lente (di fatto è pari a circa 1,85 volte la lunghezza focale stessa) da consentire il regolare movimento dello specchio reflex montato sul corpo Nikon, pertanto questo grandangolare spinto da 94° consente l’esposizione TTL e di inquadrare e mettere a fuoco efficacemente tramite il mirino della reflex, un notevole vantaggio rispetto al predecessore di fine anni ’50.

Osserviamo più in dettaglio le caratteristiche di un grandangolare simmetrico rispetto ad un retrofocus sfruttando questi magistrali schemi realizzati dal caro amico Pierre Toscani.

 

 

Affiancando al Nikkor Ai 20mm 1:2,8 S un altro grandangolare simmetrico di focale simile, il celebre Carl Zeiss Biogon 21mm 1:4,5 per Contax e Contarex, si può osservare come, pur in presenza di focale e copertura angolare simile, la posizione dei punti principali nello schema risulti radicalmente differente, permettendo quindi di posizionare la lente posteriore del Nikkor a 37,3mm dal piano focale, una distanza sufficiente alle esigenze del corpo reflex, mentre l’ultimo elemento del Biogon, che si trova ad appena 10,7mm dal film, non consentirebbe assolutamente l’uso dello specchio.

 

 

Un altro corollario interessante della progettazione retrofocus riguarda la telecentricità, argomento tornato prepotentemente in auge con l’avvento degli apparecchi a sensore digitale, soprattutto quelli full-frame: la maggiore distanza fra l’elemento posteriore e il piano focale e la differente posizione delle pupille di uscita garantiscono all’obiettivo retrofocus una proiezione molto più telecentrica, e quindi sfruttabile senza controindicazioni anche su sensore; infatti l’angolo di incidenza dei light pencils ai bordi in quest’obiettivo è di 22°, mentre nello Zeiss Biogon a schema simmetrico il valore passa a ben 43,6°, quasi il doppio rispetto al Nikkor, un valore eccessivo che produce vistosi color cast e altre problematiche ai bordi del formato, rilevabili anche in sensori predisposti a grandangolari con ridotto spazio retrofocale come quelli dei corpi Leica M.

Vediamo quindi di rievocare le origini degli obiettivi grandangolari retrofocus; in realtà il loro avvento non fu caldeggiato dalla diffusa radiazione filetica di corpi reflex, a partire dagli anni ’50, perché ci pensò molto prima l’industria cinematografica lanciando il sistema Technicolor; a partire dagli anni ’20 questa tecnologia (che produceva risultati eccellenti) impose l’adozione di cineprese munite di un ingombrante prisma separatore fra il gruppo ottico da ripresa e il film, pertanto lo spazio retrofocale necessario aumentava radicalmente e al punto da richiedere una progettazione di tipo retrofocus anche in obiettivi con lunghezza focale più lunga rispetto ai grandangolari.

 

 

Questo schema ottico riguarda un Taylor Hobson 40mm 1:2 realizzato negli anni ’30 proprio per il Technicolor; nella sezione si nota chiaramente il grosso prisma separatore dietro l’obiettivo primario e anche il modulo divergente anteriore, molto spaziato dal gruppo Gauss centrale, che provvede ad aumentare lo spazio retrofocale; a parte le complicazioni di calcolo per sopprimere nuove aberrazioni, una caratteristica di questi schemi è anche in notevole ingombro longitudinale.

Se trascuriamo le specifiche esigenze cinematografiche, l’avvento dei sistemi retrofocus per fotografia va inquadrato nei primi anni ’50, quando si tentò di equipaggiare con focali (moderatamente) grandangolari le nuove e promettenti reflex che si stavano affacciando sul mercato; nonostante nei decenni successivi il settore sia stato dominato da brand nipponici, in realtà le industrie del Sol Levante non contribuirono alla nascita dei grandangolari retrofocus, semplicemente perché a quei tempi la loro produzione era focalizzata principalmente su apparecchi a telemetro 35mm e biottiche di medio formato, modelli che non presentano problemi di spazio retrofocale.

 

 

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Il lungo, complesso ed epico viaggio dei grandangolari retrofocus è quindi arrivato alla sua meta, sia pure a prezzo di schemi ottici incredibilmente complicati, come questo prototipo Zeiss PC-Apodistagon 25mm 1:3,5 meravigliosamente interpretato da Pierre Toscani ci rivela inequivocabilmente; oggi, grazie all’adozione di superfici asferiche, vetri moderni e materiali a bassissima dispersione (vetri ED, UD), i moderni supergrandangolari non mancano di stupirci, con un resa brillante e priva di aberrazioni da lasciare a bocca aperta; però il saggio sa che lo sguardo non va indirizzato solo all’attico ma anche alle fondamenta, quindi è giusto che rivolgiamo un pensiero riverente e grato anche ai primi, modesti ed incerti modelli che hanno dato vita al settore e che, fra mille difficoltà, hanno espanso la loro genealogia fino ai mostri attuali.

Voglio ringraziare nuovamente il carissimo amico Pierre Toscani per avermi gentilmente messo a disposizione schemi magistrali e realizzati con enorme competenza ed un evidente dispendio di tempo e risorse!

Un abbraccio a tutti; Marco chiude.

 

 

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