Lenti in plastica negli obiettivi

Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; l’argomento delle lenti in plastica per gli obiettivi è una questione che ha tenuto banco regolarmente per decenni nelle chiacchiere da fotoclub fra amatori, spesso chiamata in causa paventandone la presenza in qualche pezzo del corredo o magari utilizzata come boutade per canzonare qualche collega che lamenta uno scarso rendimento di una delle sue ottiche, eventualmente instillando il dubbio che quel modello sia stato prodotto con lenti in resina e dando per scontato che tale caratteristica comporti una qualità insoddisfacente.

Tralasciando queste facezie da ritrovi serali, effettivamente le materie plastiche hanno trovato varie applicazioni nella parte ottica degli obiettivi fotografici (non parliamo dei barilotti, nei quali ormai da anni sono largamente impiegate anche in modelli di punta) e molte ottiche di fotocamere di bassa gamma hanno utilizzato moduli prodotti economicamente sfruttando tali materiali; ho quindi pianificato questo pezzo nel quale non passerò in rassegna tutti i casi disponibili ma solamente quelli che definiscono un’evoluzione tecnica o commerciale nel settore.

Le materie plastiche sembrano una invenzione recente (l’immaginario ci direbbe postbellica), viceversa la loro nascita risale addirittura a metà ‘800, e ben presto vennero creati composti ben noti anche oggi come la bachelite (1907), il PVC (1926), i polimetilmetacrilati (1928) il nylon (1935), il poliestere (1941), il poliuretano (1941), il polietilene (1953) e il polipropilene (1954); possiamo quindi dire che le principali plastiche note erano già state concepite oltre 65 anni fa, e ben presto i tecnici che progettavano gli obiettivi si accorsero che alcuni di questi materiali presentavano caratteristiche ottiche favorevoli come trasparenza ed omogeneità degli indici rifrattivi e dispersivi nella massa, tali da renderli idonei anche per la produzione di lenti, e il resto è storia.

Vediamo dunque alcuni passaggi fondamentali nello sviluppo e nell’utilizzo delle lenti in plastica.

 

 

Si può ipotizzare che la creazione di tali materiali sia piuttosto recente, invece già nel periodo bellico gli ottici Fred Altman e Rae Wylard, dipendenti della Eastman Kodak di Rochester, avevano sviluppato il progetto per un obiettivo con schema basato su un semplice tripletto di Cooke le cui lenti erano realizzate interamente in plastica.

 

 

La relativa richiesta di brevetto statunitense venne depositata il 13 Marzo 1943 e prevede il calcolo per un tripletto di apertura 1:3,7 e con angolo di campo ridotto ad appena 26° (contro i classici 46° dell’obiettivo normale), probabilmente per l’impossibilità di correggere bene le aberrazioni a tale apertura su una copertura maggiore sfruttando i materiali adottati; le lenti sono realizzate in metacrilato e, specificamente, quelle esterne prevedono l’utilizzo di cicloesil-metacrilato con indice di rifrazione nD= 1,523 e dispersione (numero di Abbe) vD= 59,0, mentre l’elemento divergente interno è realizzato in benzil-metacrilato con indice di rifrazione nD= 1,564 e dipersione vD= 36,6, quindi superiore a quella degli elementi esterni come richiesto dai classici protocolli di progettazione del tripletto; i progettisti fanno addirittura presente che il benzil-metacrilato è un materiale favorevole per questo specifico impiego nell’elemento centrale perché i normali vetri ottici con dispersione abbastanza vistosa sono solitamente abbinati ad un elevato indice di rifrazione, evidentemente inadatto a questo impiego, mentre il materiale plastico combina una dispersione non molto contenuta ad una rifrazione media.

Il documento specifica che in questo modo è possibile ottenere un obiettivo molto economico e, per certi versi, anche resistente (il vetro può infrangersi in seguito a urti, la plastica no); il sistema è sufficientemente corretto per certi utilizzi (sicuramente non critici) e risulta adatto all’abbinamento con dispositivi per i quali è prevista una vita operativa breve e quindi uno sfruttamento non intenso.

A questo punto ormai il dado era tratto, e praticamente tutti i fabbricanti di obiettivi si interessarono a queste nuove prospettive ricche di implicazioni future; l’attenzione fu traversale e non vi dedicarono risorse solamente i brand abituati a commercializzare modelli molto economici ed abbordabili.

 

 

Infatti, persino la prestigiosa Carl Zeiss di Oberkochen, intorno al 1954-55, ipotizzò la progettazione di un tripletto con lenti realizzate in resina, come chiaramente dichiarato dalla denominazione provvisoria leggibile sui prototipi, Kunststoff-Triplet, che significa letteralmente tripletto di plastica!

L’obiettivo in questione era un normale da 50mm con apertura 1:5,6 (un valore conservativo probabilmente imposto dai limiti di correzione legati alla disponibilità di poche variabili e con valori rifrattivi/dispersivi particolari e tipici delle plastiche); l’obiettivo venne inizialmente rubricato col codice prototipico interno 10 30 99 (la numerazione finale 99 era tipica dei Versuche Zeiss di inizio anni ’50) e del secondo prototipo (V2, Versuch 2) vennero addirittura allestite tre versioni, denominate V2/1, V2/2 e V2/3.

 

 

I tre prototipi non prevedono alcun rivestimento antiriflesso (probabilmente non era ancora stata sviluppata una tecnologia alternativa e le temperature delle campane sotto vuoto Haereus utilizzate allora ad Oberkochen avrebbero rammollito le lenti stesse) e sono allestiti in un otturatore centrale Synchro-Compur della Deckel, probabilmente in vista dell’applicazione su una fotocamera 24x36mm molto economica, anche considerando la penalizzante apertura massima.

 

 

I prototipi appaiono molto grezzi e sull’otturatore centrale manca qualsivoglia scala di riferimento per tempi di posa e aperture; notate la scritta “tripletto in plastica” palesemente sbandierata in prima pagina, quasi come se la novità introdotta risultasse più eclatante delle eventuali remore sull’uso di lenti in plastica e meritasse quindi di essere evidenziata a dovere.

Tornando a progetti più attinenti con la produzione, dopo l’antequem Kodak del lontano 1943, negli States la via delle ottiche economiche con lenti in plastica venne seguita soprattutto dalla Polaroid Corporation che, per le sue economiche fotocamere a sviluppo istantaneo, aveva la necessità di produrre obiettivi di lunga focale (dovevano impressionare direttamente il grande formato della copia finale) pur contenendo i costi industriali; non mi soffermo sui numerosi modelli che si avvicendarono nel corso degli anni e arrivo direttamente ad un progetto nato nella seconda metà degli anni ’70 e che avrà grandi implicazioni nel futuro dell’ottica fotografica.

 

 

Questo progetto di Calvin Owen Jr. e William Plummer fu realizzato per Polaroid e consegnato per la richiesta di brevetto il 3 Gennaio 1977; il documento descrive un obiettivo con schema a tripletto e messa a fuoco anteriore (ottenuta movimentando separatamente l’elemento frontale) le cui lenti sono realizzate in plastica; la novità del progetto sta nel fatto che, per ottimizzare le aberrazioni alle varie distanze di lavoro con la variabile della lente anteriore mobile per il fuoco (elemento che semplificava molto l’apparecchio di destinazione dal punto di vista meccanico), l’obiettivo prevedeva addirittura superfici asferiche multiple, ottenute in modo economico formando direttamente le lenti in plastica in stampi con l’adeguato profilo parabolico; questo dettaglio trasforma questo tripletto Polaroid in una sorta di testa di ponte fra i primi progetti asferici come il Leitz Noctilux-M 50mm 1:1,2 o il Canon FD 55mm 1:1,2 AL, costosi ed elitari, e le moderne ottiche con lenti asferiche prodotte a costi inferiori e quindi destinate al consumo di massa.

 

 

L’obiettivo in questione era destinato ad una fotocamera evoluta dalla storica SX70 e nella quale fossero eliminati i complessi specchi di grandi dimensioni a favore di un piccolo elemento prismatico con specchio a 45° dietro l’obiettivo.

 

 

L’utilizzo di elementi asferici risultava determinante per un apprezzabile incremento qualitativo rispetto ai modelli precedenti: in questo nuovo progetto troviamo infatti una vignettatura più contenuta, una definizione superiore e più omogenea alle varie distanze (nella “prior art” il crollo ai bordi lavorando a 2m di distanza era vistoso), una distorsione decisamente ridotta e accettabile anche a coniugate brevi e, soprattutto, lo stato di correzione delle aberrazioni che reggeva anche a distanze sostanzialmente ridotte come 3’ (circa 0,9m) e 2’ (circa 0,6m), mentre le ottiche di generazione precedente degradavano seriamente verso i bordi; l’applicazione delle superfici asferiche in un obiettivo economico, sfruttando la possibilità di iniettare facilmente la resina in appositi stampi asferici, ha garantito quindi un netto progresso nel rendimento complessivo senza intaccare sostanzialmente i costi e permettendo comunque una produzione di massa, impossibile all’epoca con lenti asferiche molate di precisione sul vetro.

 

 

Questo brevetto-chiave prevede due diversi esemplari, entrambi caratterizzati dallo stesso spazio retrofocale richiesto dalla fotocamera per la quale erano stati progettati: nel primo caso abbiamo un 114,3mm con apertura 1:9,2 ed angolo di campo da 52,8° (quindi leggermente grandangolare) con due superfici asferiche, ricavate sui raggi posteriori della prima e seconda lente, mentre il secondo embodiment è un 102,7mm 1:9,2 con 56,8° di campo ed utilizza addirittura tre superfici asferiche, previste sul raggio posteriore del primo elemento e su entrambe le superfici del secondo.

In questi obiettivi vengono utilizzati due materiali: la lente anteriore è prodotta utilizzando un polimetilmetacrilato con indice di rifrazione 1,49 e dispersione (numero di Abbe) 57,2, mentre i due elementi posteriori prevedono invece il polistirene, con indice di rifrazione più elevato (1,59) e dispersione superiore (numero di Abbe 30,8); si comprendono facilmente le iniziali difficoltà incontrate dai progettisti per finalizzare la quadratura del cerchio avendo a disposizione solo due materiali e con valori rifrattivi/dispersivi non ottimali, così come si può condividere la scelta di utilizzare il polimetilmetacrilato nella lente anteriore (è più resistente alle abrasioni e agli effetti a lungo tempo della esposizione UV) e di destinare il polistirene, meccanicamente meno performante e più sensibile agli UV nel lungo termine, agli elementi interni, in posizione protetta.

 

 

La possibilità di stampare direttamente in resina gli elementi per obiettivi e addirittura di prevedere superfici asferiche per ottenere correzioni ottiche prima impensabili era la chiave per una nuova generazione di ottiche destinate ad apparecchi economici e di grande diffusione, un esempio dei quali è questa compattissima Kodak Ektramax Pocket Camera per un formato 13x17mm su pellicola 110 in appositi caricatori; in questo caso il fabbricante ha concepito un obiettivo con apertura elevata, addirittura 1:1,9, e realizzato con lenti in materiale plastico che prevedono a loro volta una superficie asferica, caratteristica impensabile prima di allora su una fotocamera di questa categoria.

 

 

Osservando il dettaglio della sua sezione, notiamo come si basi su un classico schema a tripletto (che, probabilmente, da solo coprirebbe un formato superiore al 13x17mm nominale) con un quarto elemento posteriore che funge da rudimentale gruppo concentratore aggiuntivo col compito di ridurre il diametro del cerchio di copertura iniziale, concentrando appunto la proiezione sul formato finale ed aumentando la luminosità fino ad 1:1,9; proprio la superficie anteriore di questa quarta lente prevede un profilo marcatamente asferico che contribuisce a migliorare la correzione.

Come si può osservare dalla sezione, la possibilità di stampare direttamente le lenti è vantaggiosa non soltanto dal punto di vista ottico: infatti negli elementi L2, L3 ed L4 lo stampo prevede anche un bordo perimetrale a sbalzo che funge da ancoraggio della lente nella meccanica dell’apparecchio, semplificando la struttura e velocizzando le operazioni di assemblaggio.

Questa sinergia fra elementi plastici e fotocamere molto semplici ed economiche si è affermata e consolidata negli anni successivi, poi l’evoluzione tecnologica ha preso vie inaspettate: è nata la telefonia mobile, è arrivata l’immagine digitale, sono stati sviluppati i moderni telefoni cellulari e ben presto questi ultimi sono stati in grado di realizzare direttamente fotografie, soppiantando di fatto sul mercato e nelle tasche degli utenti questo tipo di apparecchi; vediamo quindi come si è adeguata la tecnologia delle lenti in plastica a questo nuovo contesto.

Le esigenze principali di un obiettivo per telefono cellulare sono l’estrema compattezza longitudinale del gruppo ottico, la necessità di operare con uno spazio retrofocale dal sensore ridotto praticamente a zero mantenendo comunque una proiezione telecentrica, un’apertura massima il più possibile elevata per operare in condizioni di luce scarsa e per garantire al limite di diffrazione l’elevatissima risoluzione richiesta dall’elevata densità del piccolissimo sensore e, infine, un costo finale molto ridotto: vita così sembra un’impresa titanica e non realisticamente finalizzabile, tuttavia…

 

 

Non è necessario accedere ai progetti più recenti per visualizzare il contributo determinante delle lenti in plastica iniettata per lo sviluppo di questi obiettivi così specializzati: ad esempio, questo brevetto giapponese firmato da Daigo Katsuragi e Kenshi Nabeta è stato depositato a nome di Sony Corporation il 26 Dicembre del 2013 e descrive proprio un obiettivo destinato a telefoni cellulari; vediamo le sue caratteristiche.

 

 

Le devastanti implicazioni delle lenti stampate in forme sagomate a piacere sono chiaramente evidenti alla prima occhiata: quest’obiettivo da 3,35mm con apertura 1:1,98 e 74,6° di campo (in pratica equivale ad un 28mm 1:2 sul 24x36mm) utilizza uno schema con cinque lenti in plastica, e tutte risultano biasferiche, pertanto abbiamo ben dieci superfici asferiche su dieci disponibili, e le ultime quattro prevedono anche un grado di sfericità incredibilmente elevato!

E’ quindi possibile ottenere un grado di correzione prima impossibile nonostante le ridottissime dimensioni, la grande apertura, l’elevata copertura angolare e il costo contenuto; solamente il filtro low-pass posto dietro l’ultima lente è in vetro e la sezione mostra due elementi favorevoli alla destinazione finale insiti nel progetto: un ridottissimo spazio retrofocale (la telecentricità è garantita da una lente posteriore di diametro quasi pari alle dimensioni del sensore) e un elemento anteriore di piccole dimensioni che richiede sul dispositivo un’apertura molto piccola.

Per realizzare questo piccolo gioiello sono stati utilizzati solamente due tipi di resina (il minimo sindacale per acromatizzare il sistema), uno con indice di rifrazione nD= 1,534 (più contenuto) e dipersione vD= 55,66 (ridotta) e l’altro con indice di rifrazione nD= 1,634 (più elevato) e dispersione VD= 23,87 (ben superiore alla precedente).

Proprio la necessità di incrementare ulteriormente l’apertura massima per agevolare l’utente nelle prese al buio ed aumentare la risolvenza del sistema, in ottemperanza della legge sulla diffrazione, ha guidato anche il progetto a seguire.

 

 

Questo ulteriore brevetto venne firmato da Kenshi Nabeta per Sony Corporation e consegnato per la registrazione prioritaria giapponese il primo Aprile 2013; questo progetto risulta ancora più impressionante perché il piccolissimo obiettivo utilizza in questo caso sei elementi in plastica e ciascuno di essi presenta su entrambe le superfici un grado di deformazione asferica estremamente elevato, ovviamente impossibile anche solo da concepire con elementi in vetro.

 

 

I dati di progetto definiscono un obiettivo grandangolare (68,6° di campo, all’incirca come un 33mm sul 24×36) da 4,17mm di focale e apertura massima 1:1,6, un valore decisamente elevato considerando le dimensioni lillipuziane del sistema (che, in una ipotetica esecuzione in vetro, avrebbero imposto tolleranze così ridotte da essere impraticabili); la tabella conferma come tutti e dodici le superfici esposte ad aria siano asferiche e, anche in questo caso, per realizzare tali elementi sono stati utilizzati due tipi di resina con differenti caratteristiche rifrattive/dispersive: uno con rifrazione nD= 1,531 e dipersione vD= 55,7 e l’altro con rifrazione nD= 1,650 e dispersione vD= 21,5 (entrambe più elevate rispetto alla precedente versione).

 

 

I diagrammi con lo stato delle aberrazioni previsto conferma l’ottimo stato di correzione consentito dall’impressionante batteria di superfici asferiche, nonostante il ridotto assortimento di valori rifrattivi/dispersivi dei materiali utilizzati, e solamente la distorsione si spinge fino al 3% abbondante, valore comunque non allarmante nell’uso quotidiano.

 

 

Questa ulteriore illustrazione del brevetto chiarisce inequivocabilmente la destinazione d’uso dell’obiettivo descritto.

In altri casi, forse destinati a telefoni più sofisticati, il fabbricante ha scelto di abbinare alle lenti in resina anche elementi in vetro, parimenti rammolliti e sagomati a caldo col processo di glass-molding che consente di ottenere anche in questo caso superfici asferiche a basso costo.

 

 

Ad esempio, questo brevetto firmato da Takashi Kubota per Tamron Corporation e consegnato per la registrazione prioritaria giapponese il 27 Gennaio 2006, descrive un obiettivo per cellulare a quattro lenti, nel quale le prime due sono in vetro e le rimanenti in plastica.

 

 

In particolare, come specificato in questo estratto del documento, utilizzando negli elementi in vetro un materiale a bassa dispersione è possibile correggere l’aberrazione cromatica a livelli evidentemente non possibili con i soli materiali plastici.

 

 

Infatti, osservando i dati di progetto di quest’obiettivo, osserviamo come le prime due lenti siano in vetro, con la prima ottenuta per glass-molding utilizzando un vetro fluorite Crown FK a bassa rifrazione e ridotta dispersione, mentre la seconda (prodotta con lo stesso procedimento della precedente) si avvale di un vetro Dense Flint SF ad alta rifrazione e alta dispersione; le due lenti posteriori sono invece in plastica, con indice di rifrazione nD= 1,5247 e dispersione vD= 56,2; notate come, anche in questo caso, tutte le otto superfici esterne dei quattro elementi siano asferiche, comprese quelle dei piccolissimi elementi in vetro, un dettaglio che giustifica la loro procedura di produzione.

Infine, passando invece agli obiettivi di alta gamma per uso fotografico, un interessante impiego delle resine ha riguardato la realizzazione di lenti “ibride”, composte da un elemento in vetro con superfici sferiche convenzionali al quale viene accostata una maschera asferica realizzata con grandissima precisione, iniettando nello spazio fra le due superfici una resina plastica che aderisce al vetro e definisce un nuovo profilo asferico, mutuato dalla sagoma dalla quale ha acquisito la forma; è così possibile prevedere lenti con un grado di asfericità molto elevato o con parte asferica su una superficie concava (condizione che renderebbe molto difficile operare con metodi tradizionali), chiamando eventualmente in causa anche vetri con caratteristiche fisiche sfavorevoli ad altre procedure di lavorazione.

 

 

Ad esempio, questo interessantissimo progetto di Haruo Sato per Nikon Corporation venne consegnato per la registrazione prioritaria giapponese il 17 Ottobre 2001 e descrive il modello per un obiettivo da 20mm di focale (circa 94° di campo) ed apertura molto elevata, spinta fino ad 1:1,4; questo moderno disegno prevede tre superfici asferiche, due delle quali applicate al raggio interno concavo della prima e terza lente, dettaglio che ha suggerito di utilizzare proprio la tecnica appena descritta; infatti, come la grafica chiarisce, il grande elemento anteriore in vetro lanthanum Dense Flint ad alta rifrazione e bassa dispersione con due superfici sferiche normali prevede nella parte posteriore un riporto di resina iniettata che definisce una superficie asferica abbastanza pronunciata e resa possibile dai differenti spessori zonali della resina iniettata contro la maschera di riscontro asferica.

 

 

Infatti, se osserviamo i dati grezzi relativi al modello illustrato, possiamo osservare come negli elementi L1 ed L3 siano indicati per il raggio posteriore due valori differenti, il primo relativo alla lente in vetro vera e propria e il secondo alla superficie asferica esposta ad aria del riporto in resina; questa lavorazione è evidenziata anche nella descrizione dei materiali, nei quali ai valori rifrattivi/dispersivi dei due vetri impiegati nell’elemento base di L1 ed L3 (i lanthanum Dense Flint Hikari E-LASF015 ed E-LASF016) sono abbinati quelli del materiale plastico utilizzato per il riporto asferico, con indice di rifrazione 1,553070 e dispersione 38,73.

Questa tecnologia “ibrida” consente di realizzare elementi dalle incredibili caratteristiche, trasformando in elementi asferici, eventualmente anche su superfici concave, lenti magari realizzate con vetri critici per altre lavorazioni come quelli ED o ulteriori tipologie di difficile lavorazione meccanica o inadatte al glass-molding a caldo; la sua introduzione ha quindi sancito la nascita di una nuova generazione di obiettivi con caratteristiche geometriche e prestazioni prima impossibili, sebbene rimanga un dubbio latente sulla stabilità nel lungo termine dei materiali utilizzati per il riporto asferico, argomento che costituisce l’unica, vera obiezione all’adozione di plastiche per impiego ottico, se escludiamo la vulnerabilità meccanica, eventualmente correggibile con i moderni trattamenti antiriflesso, indurenti ed idrorepellenti.

Il lungo viaggio delle plastiche applicate agli obiettivi non è stato quindi foriero di sciagure per gli utenti o della paventata diffusione di massa, col conseguente ed ipotizzato crollo di qualità e prestazioni che popolava gli incubi dei fotografi, trovando invece una via logica ed intelligente per integrarsi nella produzione convenzionale e portare evidenti benefici in particolari settori dove le procedure correnti erano arrivate ai loro limiti fisiologici; l’utilizzo dei rivestimenti per ottenere elementi asferici a basso costo con tolleranze sufficientemente elevate è stata una conquista molto importante per tutti i consumatori e oggi, spesso, molti di essi si stupiscono della buona resa di un bundle-zoom dal prezzo popolare magari ignorando che incorpora elementi asferici ottenuti in tal modo e che tali lenti speciali sono responsabili delle prestazioni insolitamente elevate; mi ripeto ricordando che non conosciamo la stabilità nel tempo di tali lavorazioni, tuttavia l’accelerazione consumistica dei nostri tempi con obsolescenza programmata e nuovi modelli sfornati a ripetizione rende questa mia obiezione un grido solitario sempre più lontano e coperto dal rumore di fondo.

 

 

Desidero concludere con questo annuncio pubblicitario che risale addirittura al 1966 e dimostra come già allora esistessero aziende in grado di produrre e fornire, anche con modelli creati ad personam, lenti in plastica per sistemi ottici; ho scelto questa immagine perché il brand in questione, Nippon Kogaku Jushi, è un quasi omonimo delle celeberrima Nippon Kogaku K. K., alias Nikon!

Un abbraccio a tutti; Marco chiude.

 

 

 

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