Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; l’argomento delle ottiche “hot”, cioè degli obiettivi fotografici con lenti blandamente radioattive, serpeggia da molto tempo come un rumore di fondo nell’ambiente e ad intervalli regolari torna alla ribalta, magari grazie a qualche lungo thread ansiogeno su forum o gruppi dei social networks; in effetti non è un mistero che per un lungo periodo le aziende specializzate abbiano realizzato vetri ottici con caratteristiche particolari finalizzandole grazie all’utilizzo di ossidi di elementi radioattivi, una scelta che ha comportato nel tempo effetti indesiderati come l’ingiallimento delle lenti e l’inquietante risposta attiva alla prova del dosimetro.
In questa sede vorrei invece approfondire una tematica secondaria di questo argomento che da lustri fa scervellare gli appassionati: la ragione per cui alcuni modelli di obiettivi risultano leggermente radioattivi nelle prime serie e poi completamente inerti in quelle successive, nonostante l’azienda non abbia mai dichiarato modifiche ai vetri ottici utilizzati e al calcolo dello schema, cercando anche di capire perché tali vetri contenevano inizialmente componenti radioattivi nonostante fossero prodotti già negli anni ’70, molti anni dopo la messa al bando più o meno generalizzata di tali componenti; in realtà non esiste un’evidenza oggettiva chiara e facilmente delineabile per rispondere a questi enigmi, e premetto che quella che segue è solamente la ricostruzione più plausibile e verisimile che sono riuscito a definire, arrivando alla medesima anche grazie all’accesso a documenti militari statunitensi sui quali ho messo mano soltanto di recente.
Fra gli obiettivi più famosi che possono vantare una doppia vita, inizialmente con gruppo ottico radioattivo e poi inerte, nonostante la produzione non abbia apparentemente evidenziato aggiornamenti o modifiche in corsa, possiamo senz’altro annoverare il Canon FD 55mm 1:1,2 AL, il Minolta Rokkor-PG 58mm 1:1,2 e l’Olympus OM Zuiko 55mm 1:1,2; in tutti questi casi i primi esemplari rivelano una modesta radioattività con relativo, inconfondibile ingiallimento delle lenti dovuto alle reazioni metamittiche causate dagli ossidi radioattivi del vetro, mentre nella produzione più recente gli stessi obiettivi sono inerti e con lenti trasparenti anche dopo molti anni; nel caso dei modelli Canon e Olympus è anche possibile definire esattamente il momento della transizione: nel primo obiettivo le lenti radioattive scomparvero con la variante AL S.S.C. (aggiornata con trattamento antiriflessi multistrato), nel secondo con la transizione dal modello “chrome nose” con filetti anteriori cromati a quello con barilotto completamente nero.
Sistematica a parte, è ampiamente documentato che in questi 3 obiettivi la radioattività delle lenti è scomparsa completamente ad una certa fase della produzione, senza che il costruttore abbia mai dichiarato modifiche al progetto; cercheremo quindi di definire perché a inizio anni ’70 certi vetri fossero ancora radioattivi e per quale ragione la radioattività è scomparsa dalla serie senza alcuna alterazione nei protocolli di produzione; partiamo innanzitutto dal comprendere per quale ragione certi vetri ottici siano radioattivi.
Il progresso in questi materiali si articola soprattutto migliorando la relazione fra indice di rifrazione e dispersione (cioè la caratteristica di rifrangere le varie componenti monocromatiche dello spettro luminoso incidente con angoli differenti fra loro, mandandoli a fuoco su piani diversi); la disponibilità di vetri che garantiscano simultaneamente alto indice di rifrazione (che flette il raggio luminoso con una minore curvatura della lente, migliorando la correzione delle aberrazioni) e ridotta dispersione (per controllare meglio l’aberrazione cromatica) è la via maestra per produrre obiettivi di qualità superiore; a tale riguardo, il più grande progresso nella storia dei vetri ottici fu la scoperta che aggiungendo all’impasto quantità rilevanti di certi ossidi, soprattutto lantanio e tantalio, si ottenevano vetri con un rapporto alta rifrazione/bassa dispersione mai visto prima.
Il problema iniziale con questo nuovo approccio riguardava un comportamento indesiderato di questi ossidi: durante la fase di raffreddamento della mescola comportavano spesso la devetrificazione del materiale, che assumeva caratteristiche cristalline inadeguate all’utilizzo nell’ottica.
Venne quindi scoperto che l’ossido di torio, elemento radioattivo, non soltanto svolgeva la stessa funzione di quelli di lantanio e tantalio ma consentiva in qualche modo di “controllare” queste caratteristiche negative degli altri materiali, portando quindi a sbozzi finali con le opportune caratteristiche fisiche ed ottiche; questo conseguimento fu così importante da mettere in secondo piano la radioattività del materiale, sebbene, come vedremo, il geniale chimico che concepì questa nuova generazione di vetri avesse già individuato una soluzione, tuttavia non sfruttata per molti anni.
Senza addentrarmi in argomentazioni scientifiche troppo complesse e ostiche anche per me, questo schema mostra il percorso di decadimento del torio 232 radioattivo verso una forma stabile finale, il piombo 208; il documento illustra come tale materiale abbia in realtà un decadimento lento, producendo quindi poca energia radiante, tuttavia durante questa fase genera anche isotopi secondari, i cosiddetti “daughters” , il cui tempo di half-decay è decisamente più rapido e producono quindi un’emissione più intensa; ciò che accade negli obiettivi con lenti prodotte sfruttando l’ossido di torio è proprio questo: nel corso degli anni il decadimento genera tali isotopi secondari che aumentano l’emissione e, nel contempo, causano anche il classico ingiallimento delle lenti (eliminabile con una lunga esposizione del vetro a forti sorgenti UV, senza tuttavia ridurne la radioattività).
Questa nuova generazione di vetri “agli ossidi delle Terre Rare” con alta rifrazione e bassa dispersione vide la luce a metà anni ’30 grazie agli studi di George Washington Morey (1888-1965), un geniale mineralogista, chimico e fisico che negli anni ’20 introdusse innovazioni epocali nel campo del vetro ottico, scoperte che poi riassumerà nel suo celebre volume “The properties of glass” (1938), tuttora un classico del settore; per le sue eccezionali scoperte sull’uso degli ossidi nella fusione dei vetri venne poi insignito nel Dopoguerra con le prestigiose Day Medal (1958) e Potts Medal (1959).
Il Dr. Morey, proprio in virtù delle sue innovazioni e della relativa fama conseguita, nei primi anni ’30 venne contattato dalla Eastman Kodak di Jersey City che gli commissionò un ambizioso studio sui vetri per definire una nuova generazione di materiali dalle caratteristiche innovative, dei quali l’azienda avrebbe posseduto la proprietà intellettuale; gli studi di Morey che seguirono questo accordo portarono ad un brevetto del 1935 che costituisce l’elemento più significativo nella transizione dai vetri ottici classici a quelli moderni, al punto che l’inventore aveva già scandagliato i limiti fisici dei materiali terrestri, definendo tipologie di vetri con caratteristiche rifrattive/dispersive così elevate da non essere mai più state superate, nemmeno oggi.
Il documento-chiave di cui parliamo è il brevetto statunitense n° 2.150.694, presentato da George Washington Morey per la registrazione a nome di Eastman Kodak il 19 Agosto 1936 ma già consegnato al corrispondente ufficio britannico il 3 Settembre 1935; gli embodiments descritti nel documento garantirono istantaneamente all’azienda un vantaggio di almeno 15 anni sulla concorrenza, ivi comprese le più famose vetrerie mondiali, e la gamma di comuni ottiche Ektar commercializzate dal 1940 già li utilizzava fattivamente.
Per comprendere la portata epocale di questi studi, osserviamo il diagramma presente nell’intestazione del brevetto; questo schema viene detto diagramma di Abbe e definisce le caratteristiche di un vetro ottico creando un punto di intersezione fra il suo indice di rifrazione (qui con valori compresi fra 1,50 e 2,05) e la dispersione (identificata dal numero di Abbe, da 10 a 70 sulla scala: più alto è il numero e più bassa la dispersione); fra i nuovi tipi di vetro svelati dal brevetto ed indicati sul documento ho evidenziato il tipo M: come si può vedere, il suo indice di rifrazione è circa 1,9 (quindi elevatissimo) e il relativo numero di Abbe della dispersione è circa 40, valore che indica una dispersione incredibilmente ridotta se relazionata al valore rifrattivo 1,9; questo vetro presenta in pratica le stesse caratteristiche ottiche del modello più estremo disponibile ancora oggi sui cataloghi, un lanthanum Dense Flint (LaSF) i cui parametri corrispondono a quelli del vetro Leitz 900403 “Noctilux” oppure a quelli dell’attuale Schott LaSF31A o dei tipi equipollenti creati altre vetrerie principali; in pratica, già nel 1935 Morey aveva definito per questo vetro un “incrocio” rifrazione/dispersione non migliorabile e che tuttora rappresenta un limite invalicabile, quantomeno per la tavola periodica degli elementi terrestre.
Tornando all’ossido di torio, in realtà Morey era ben cosciente della radioattività di questo materiale e, per quanto si rendesse conto di come fosse indispensabile per mantenere le caratteristiche fisiche necessarie, approfondì i suoi studi in altre direzioni, arrivando ad una ulteriore scoperta di taglio modernissimo: in pratica definì alcuni ossidi non radioattivi che potevano sostituire il torio nella sua duplice funzione, sia migliorare il rapporto rifrazione/dispersione che controllare la struttura molecolare della mescola durante il raffreddamento.
Vediamo dunque questi 19 vetri ottici innovativi ideati da Morey.
In questi schemi ricavati dal brevetto i vari vetri sono indicati con lettere dell’alfabeto (da A a V) e per migliore comprensione ho evidenziato in giallo quelli che sfruttano l’ossido di torio radioattivo e in arancio quelli che non lo usano, sottolineando allo stesso modo, negli ingredienti, l’ossido di torio in giallo e i suoi sostituti in arancio (nel brevetto esistono anche vetri senza torio che non sfruttano ossidi alternativi ma, semplicemente, ne fanno a meno).
I 3 materiali che affiancano gli ossidi “standard” (lantanio e/o tantalio) al posto del torio sono gli ossidi di titanio, zirconio e tungsteno, esattamente gli stessi (assieme talvolta all’ossido di calcio) che vengono sfruttati tuttora nei vetri moderni per ottenere lo stesso effetto di “controllo” sul raffreddamento della mescola senza introdurre elementi radioattivi; pertanto, in quel lontano 1935, Morey aveva portato gli studi sui vetri ottici ad un livello quasi escatologico, definitivo, creando il modello dei moderni vetri ottici “alle Terre Rare” nella configurazione utilizzata ancora oggi; ci si può quindi chiedere perché vari embodiments del brevetto continuassero invece ad utilizzare l’ossido di torio (compreso il tipo M già citato, evidenziato in giallo nella tabella riassuntiva con i relativi indici di rifrazione per 4 frequenze dello spettro e il numero di Abbe v per la dispersione), portando poi in produzione per molti anni solo varianti radioattive con torio al posto di quelle inerti.
Una risposta potrebbe essere, a quei tempi, la difficile reperibilità degli ossidi di titanio, zirconio e tungsteno ed i relativi costi elevati che suggerivano di sfruttare l’ossido di torio, evidentemente più economico e facile da reperire; una sponda a questa ipotesi viene accreditata anche da un altro brevetto depositato da Leon Eberlin, collaboratore di Morey.
Nel brevetto statunitense n° 2.206.081, depositato nello stesso periodo del precedente, Eberlin torna sui nuovi vetri di Morey descritti nel suo brevetto e si prende la briga si sostituire l’ossido di titanio previsto in alcuni modelli, che teoricamente costituiva una caratteristica migliorativa in quanto non radioattivo, ripristinando al suo posto il classico ossido di torio, qui presente in tutti i vetri discussi e con percentuali fino al 26,7% in peso; notate come anche in questo brevetto sia presente il vetro lanthanum Dense Flint descritto in precedenza, e qui evidenziato col numero I: i valori rifrattivi e dispersivi (indice di rifrazione: 1,898 numero di Abbe: 39,6) sono assolutamente eccezionali anche per gli standard odierni.
E’ quindi possibile che, pur conoscendo fin da subito questi ossidi alternativi non radioattivi, la loro scarsa disponibilità abbia portato ad accettare il compromesso costituito dall’ossido di torio, materiale che poi rimase presente in alcuni vetri per altri 35 anni.
Che la radioattività riscontrata in alcuni obiettivi sia dovuta sostanzialmente all’ossido di torio presente in una o più lenti è confermato anche dal seguente studio.
Questo eccezionale documento, compilato nell’Agosto 1980, costituiva il materiale per una tesi di laurea e rappresenta in pratica una completa mappatura dell’emissione Gamma misurata su un classico obiettivo “hot”, l’SMC Takumar 50mm 1:1,4 di Asahi; fra tutti i picchi misurati ho evidenziato in rosso quelli riconducibili a torio 232, e come potete notare si tratta di un numero rilevante.
Abbiamo quindi appurato che la radioattività delle lenti è dovuta ad ossido di torio, e che la progettazione dei moderni vetri ottici ad alta rifrazione/bassa dispersione va retrodatata a metà anni ’30, quando peraltro il loro inventore era già cosciente che avrebbe potuto sostituire l’ossido radioattivo con elementi inerti ma evidentemente ciò non venne fatto per ragioni pratiche e commerciali; in seguito tali composti divennero più facilmente reperibili e le varie vetrerie iniziarono ad eliminare sistematicamente il torio a favore di ossidi di titanio, tungsteno, titanio e calcio, producendo quindi vetri inerti; tutto queste considerazioni non spiegano quindi perché certi vetri, e spesso nemmeno con caratteristiche estreme, continuarono ad essere formulati con ossido di torio fino agli anni ’70, al punto da finire in obiettivi sostanzialmente moderni come i modelli luminosi descritti in precedenza.
La ragione di tutto ciò potrebbe avere implicazioni militari, come suggerito dal documento statunitense i cui stralci vedremo a seguire.
Questo elenco proviene da una documentazione anni ’70 sulla fornitura di vetro ottico alle Forze Armate statunitensi e descrive le aziende nazionali o estere che mettevano a disposizione il materiale o producevano gli sbozzi grezzi.
Questo diagramma mostra invece il workflow dei sistemi ottici militari, dal vetro ai prodotti finiti; notate come, in basso, le lenti al torio siano già citate con un’aggiunta a penna; queste note sono relative alla produzione di alcuni tipi di oculari in dotazione ai militari e alle problematiche legate alla presenza di torio radioattivo nelle lenti a diretto contatto con l’occhio dell’operatore.
Questo diagramma di Abbe identifica tutti i vetri ottici a disposizione per uso militare forniti dalle varie aziende descritte in precedenza; è interessante notare che tutti i modelli più spinti appartenenti alle famiglie lanthanum Crown (LaK), lanthanum Dense Crown (LaSK) e lanthanum Dense Flint (LaSF) sono evidenziati con un triangolo che indica la presenza di torio; pertanto, ancora negli anni ’70, molti vetri con caratteristiche rifrattive/dispersive elevate erano confezionati con l’ossido radioattivo, quantomeno nelle versioni fornite per uso militare; 2 vetri sono invece evidenziati con un cerchio, indicando materiali utilizzati negli oculari militari tipo SSS: quello a sinistra, con indice di rifrazione prossimo ad 1,7 e numero di Abbe di circa 56, corrisponde allo standard del vetro Kodak EK110.
Questo ulteriore elenco estratto dal documento è estremamente importante per chiarire molti elementi: infatti lo stralcio fa riferimento a problemi riscontrati con i citati oculari militari tipo SSS equipaggiati con vetro all’ossido di torio, e permette di inferire alcuni concetti:
1) la Eastman Kodak, forte di una partnership quarantennale, rappresentava la scelta prioritaria nella fornitura dei vetri ottici alle Forze Armate statunitensi, al punto che gli altri produttori come Ohara, Oti e Schott, per fornire un materiale equivalente al Kodak EK110 utilizzato negli oculari e ancora formulato con ossido di torio, DOVETTERO A LORO VOLTA INTRODURRE IL TORIO NELLA LORO VERSIONE DI VETRO (osservate la nota “added thorium to duplicate EK110”), al fine di mantenere i vari parametri analoghi a quelli del tipo EK110 di riferimento; questo spiega la ragione per cui, già negli anni ’70, alcuni vetri ottici realizzati da grosse vetrerie di fama mondiale utilizzavano ancora l’ossido di torio, sebbene ormai obsoleto;
2) evidentemente le Forze Armate riconoscevano la pericolosità del materiale radioattivo accostato all’occhio e avevano chiesto di provvedere, REALIZZANDO VETRI PRIVI DI TORIO CON IDENTICHE CARATTERISTICHE che avrebbero permesso di produrre gli stessi strumenti ottici senza alcuna modifica di progetto; infatti l’elenco cita la vecchia versione Schott LaK14 con torio e la nuova LaKN14 che ne è priva (osservate la nota a mano “new no thorium”), così come sono indicati il vetro Hoya LAC-14 (con torio) e il successivo LAC-N14 (privo di torio).
Come si può notare, entrambe le versioni di Schott e Hoya mantengono identici valori rifrattivi e dispersivi (697554 e 687555, ad indicare indice di rifrazione e numero di abbe – rispettivamente – n= 1,697 – v= 55,4 ed n= 1,697 e v= 55,5), confermano la piena intercambiabilità fra il tipo con torio e i successivo che ne è privo.
In realtà la serie di vetri ottici Kodak militari tipo EK degli anni ’70 prevedeva solo versioni ad alta rifrazione/bassa dispersione con l’impiego di ossido di torio; alcuni modelli, come i vari EK230, 330, 430 e 450 non prevedevano rimpiazzi ed erano l’unica tipologia disponibile, mentre per il citato EK110 (n= 1,697 v= 56,2) e per i modelli EK310-320-325 (n= 1,745 v= 45,6 – 45,8 – 46,4) ed EK448 (n=1,880 v=41,1) le Forze Armate avevano richiesto ad altri fornitori appaltati come Schott, Ohara, Sovirel e Hoya di produrre materiali corrispondenti, a loro volta realizzati con ossido di torio, salvo poi cambiare idea e prevedere la sua abolizione, il tutto senza modificare i parametri rifrattivi e dispersivi nel relativo passaggio.
Tutto questo lungo discorso ci riconduce dunque a capolinea dai nostri misteriosi obiettivi superluminosi anni ’70 che inizialmente furono radioattivi e in seguito, come per magia, abbandonarono tale caratteristica senza aver introdotto alcuna modifica o ricalcolo allo schema ottico; non mi pronuncio in termini precisi per il Minolta, probabilmente confezionato con vetri prodotti internamente dall’azienda che seguirono un percorso indipendente, tuttavia nel caso del Canon FD 55mm 1:1,2 AL e dell’Olympus OM Zuiko 55mm 1:1,2 “chrome nose”, la spiegazione dovrebbe risiedere nell’utilizzo condiviso su entrambi i modelli di un vetro lanthanum Dense Flint corrispondente allo standard Schott LaSF43 (in realtà ogni vetreria sfrutta una sigla differente), con indice di rifrazione n= 1,806 e numero di Abbe v= 40,8; questo vetro è stato effettivamente prodotto con l’uso di torio fino ai primi anni ’70 (forse per ragioni analoghe a quelle già citate per i vetri Kodak) e successivamente tale elemento radioattivo fu eliminato, dando vita ad una evoluzione del materiale completamente inerte, sebbene i valori rifrattivi e dispersivi fossero rimasti identici, al punto che il “tipo 2” poteva subentrare nella produzione semplicemente sostituendo il precedente, senza richiedere alcuna modifica, esattamente come avvenne per i vetri Schott e Hoya per uso militare che vennero evoluti eliminando su richiesta l’ossido di torio senza alterarne minimamente la rifrazione e la dispersione.
E’ interessante notare come tutti i principali fabbricanti di vetri ottici abbiano evoluto la loro versione di questo vetro lanthanum Dense Flint utilizzato sui 55mm 1,2 Canon e Zuiko: la Hoya passò dal tipo CDFD13 all’NBFD13, Schott da LASF43 a N-LASF43, Hikari (Nikon) da LASF03 ad E-LASF03 e Ohara da LASF03 a S-LAH53; si trattava evidentemente di un tipo di vetro che utilizzava componenti ormai non più ammissibili e che è stato rivisto dall’intera categoria, pur mantenendo le caratteristiche iniziali, un evento che spiega finalmente il mistero della radioattività scomparsa!
Un abbraccio a tutti; Marco chiude.
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Thank you Marco for yet another most interesting article!
I am absolutely no radiation expert, but a Canon FD expert and have in my research come across the following sources suggesting that all aspherical 55/1.2s and even early versions of the 5o/1.2L were radioactive.
http://www.lummukka.com/canonfd55aspherical.php
https://camerapedia.fandom.com/wiki/Radioactive_lenses#Tested_lenses
Granted, those are individual measurements and they may have been carried out wrongly (then again, how do you get a geiger counter to display radioactivity that isn’t there?), yet they suggest at best that the separation between versions radioactive and not is not clear-cut, or even inexistent.
I just wish to put that out there for information and as a cautionary tale. I myself own a few radioactive lenses and take care not to be near them too much.
All the best