Un cordiale saluto a tutti i followers di NOCSENSEI; Hasselblad è da sempre sinonimo di fotografia professionale e generazioni di professionisti hanno costruito la loro carriera e il proprio budget affidandosi alla leggendaria “seipersei” svedese; pur nell’attuale diversificazione, la “vera” Hasselblad con la H maiuscola è sempre stata la serie V, alla quale appartenevano le mitiche fotocamere della famiglia “500” con i relativi obiettivi Carl Zeiss dotati di otturatore centrale e sincronizzazione flash su tutti i tempi, un binomio che dal 1957 in poi si è costruito una solida reputazione e ha saputo restituire al mittente gli assalti commerciali di concorrenti come Mamiya, Zenza Bronica e Kowa, restando sempre uguale a se stesso ed inimitabile perché aveva già raggiunto un mix irripetibile di funzionalità, affidabilità e qualità d’immagine.
Molti di noi hanno trascorsi avventurosi e struggenti ricordi con la “Hassy” in mano e tanti giovani appassionati stanno vivendo un idillio postumo con questo sistema, pertanto voglio condividere qualche simpatica curiosità dedicata al corredo “V”.
Hasselblad incarna al massimo livello lo stereotipo di fotocamera analogica per eccellenza, in grado di garantire risultati superiori grazie all’ampia superficie del suo negativo e all’ottima qualità degli obiettivi di Oberkochen, e ancora oggi molti appassionati inossidabili sostengono che il loro negativi Hassy non temono confronti con i files digitali moderni; eppure, proprio agli albori della fotografia numerica, quando le attrezzature erano costosissime e primitive e i risultati ancora ben lontani dallo stato dell’arte, esistevano già fotografi che accettarono questa scommessa per il futuro e convertirono la loro Hasselblad alla fotografia digitale; un esempio eloquente è rappresentato da Lois e Bob Schlowsky, una coppia di fotografi professionisti che nel 1992 equipaggiarono la loro Hasselblad 553ELX con un dorso digitale e convertirono la ragione sociale del loro studio di Weston, Massachussets, in “Schlowsky photography and computer imagery”.
Il dorso adottato nel 1992 da Lois e Bob Schlowsky era il modello DCB I prodotto dalle Leaf Systems incorporated, a quel tempo sussidiaria della Scitex Corporation Limited; nonostante il suo listino fosse pari a ben 36.000 USD dell’epoca, si trattava di un hardware con caratteristiche che oggi fanno sorridere: la matrice del sensore è un CCD privo di griglia Bayer da 40x40mm (1,2”x1,2”) con una risoluzione da 2.048×2.048 pixel (4 Megapixel); il dorso è privo di memorie interne e non è previsto neanche un display posteriore o qualsivoglia sistema di pre-visualizzazione dell’immagine, pertanto ogni scatto viene trasferito direttamente al PC, dove può essere poi analizzato sul suo monitor; il sensore genera files a colori da 12,6 Megabytes ma per ottenere l’immagine finale sono necessarie 3 esposizioni sequenziali, ciascuna con un filtro RGB differente, quindi non è possibile realizzare istantanee e gli unici soggetti idonei sono quelli statici; il range di sensibilità utilizzabili va da 25 a 500 ISO e la gamma dinamica dichiarata dal fabbricante è pari a 11 f/stops,
La Hasselblad 553 ELX equipaggiata col dorso Leaf DCB I era dunque uno strumento per utilizzo esclusivo in studio; la configurazione tipo prevedeva il corpo macchina motorizzato, il pentaprisma esposimetrico coevo (PME-5), un obiettivo Carl Zeiss equipaggiato con la torretta motorizzata dei tre filtri RGB (rosso, verde e blu) e, naturalmente il dorso digitale con la relativa piastra di raccordo ad Hasselblad; il dorso stesso era a sua volta interfacciato a vari cavi, destinati alla sua alimentazione, al tethering col PC, alla sincronizzazione con l’otturatore e al comando della torretta motorizzata con i 3 filtri di selezione cromatica, attivata dopo ogni esposizione; lo studio Schlowsky non aveva investito somme importanti solamente nel dorso e relativi accessori ma anche per avere a disposizione (siamo nel 1992…) un computer in grado di gestire le immagini e supportato da risorse sufficienti; nel caso specifico, il loro studio si avvaleva di un computer professionale Mac con 64 Megabytes di RAM (misura oggi surclassata con fattore 1000 ma ricordo che, al tempo, i computer Mac consumer come i Macintosh Classic prevedevano 1 Megabyte di RAM, con espansione massima a 4, quindi per il 1992 una dotazione da 64 Mb costituiva di una potenziale enorme), tavoletta grafica A4 e monitor CRT di ultimissima generazione.
Fra i limiti informatici con cui questi autentici pionieri del tempo dovevano confrontarsi c’era naturalmente anche lo scarso sviluppo dei relativi software: nel 1992 il programma Adobe Photoshop era ancora al release 2.0 (aggiornato a 2.5 a fine anno) e, naturalmente, la scelta e il potenziale dei suoi tools erano distanti anni luce da quelli attuali.
Con queste premesse non possiamo che ammirare questo still-life digitale realizzato in studio da Lois e Bob nel 1992, un’immagine dalla risoluzione limitata (circa 17,3×17,3cm a 300 Dpi, oppure 20x20cm a circa 260 Dpi) ma caratterizzata da accuratezza cromatica e riproduzione tonale già perfettamente competitive con l’analogico; la regina della fotografia argentica, per ironia della sorte, fu dunque una delle prime ad attraversare il Rubicone e ad affrontare questo nuovo mondo, sconosciuto e pieno di insidie!
Gli Schlowsky conservavano e trasferivano già le immagini tramite supporti di memoria rimovibili, e infatti anche questa fotografia venne inviata al service per la separazione e la stampa in quadricromia salvandola su un dispositivo SyQuest da 88 Mb (!).
Questa piccola istantanea documenta proprio Lois e Bob Schlowsky nel loro studio, per l’epoca davvero fantascientifico; ricordo che, quando osservai per la prima volta la loro dotazione e vidi il risultato del loro lavoro in digitale, provai una feroce invidia per le competenze e gli hardware che avevano già acquisito: io ero alle prime armi ma comprendevo bene il potenziale futuro insito nel sistema e avrei davvero voluto essere già al loro livello per divertirmi!
Un’altra parentesi entusiasmante riguarda Hasselblad e le missioni spaziali; la NASA iniziò ad utilizzare le fotocamere svedesi già a metà anni ’60 e molte immagini sono giunte dallo spazio grazie all’utilizzo di questi apparecchi; mentre molti stanno discutendo da anni se le fotografie del Moon Man Landing siano reali o artefatte in enormi studios, nessuno invece sembra chiedersi come vengano conservate queste immagini a lungo termine, preservandole il più possibile per le generazioni future; naturalmente alla NASA hanno affrontato tale problema molto seriamente, ed ecco la loro soluzione.
I film con le immagini provenienti dalle missioni spaziali sono stati riprodotti due volte, ottenendo così tre copie ridondanti che sono conservate alla temperatura costante di -18°C e bassissima umidità relativa (20%); gli originali sono custoditi in un apposito vano climatizzato nella sede della NASA, a Houston; i primi duplicati sono invece stoccati alle stesse condizioni di temperatura e umidità in un’altra sede sotto il controllo dell’Ente Spaziale, sempre a Houston, mentre i secondi duplicati sono al sicuro in un terzo sito, molto distante, nell’installazione governativa di White Sands, nel New Mexico; con questo protocollo i tecnici confidano in una lunga conservazione ma, naturalmente, in tal proposito contribuiranno anche le scansioni digitali effettuate e i relativi backup multipli.
Questa istantanea è stata realizzata nell’Ottobre 1987 proprio nel vano climatizzato della sede centrale NASA di Houston dove sono conservate le pellicole originali delle missioni spaziali, a loro volta all’interno di contenitori metallici; l’assenza di luce e il mantenimento a bassissima temperatura in ambiente a ridotta umidità e in assenza di sostanze chimiche aggressive nell’aria sono le condizioni reputate migliori per uno stoccaggio a lungo termine delle emulsioni esposte e sviluppate.
L’ultima curiosità è uno spunto fornito da uno degli innumerevoli cataloghi del sistema Hasselblad realizzati dalla casa di Goteborg nel corso degli anni; questa specifica edizione, della quale ammiriamo la copertina, è l’unica che descrive nel capitolo degli obiettivi un modello molto particolare.
Infatti, nella sezione dedicata alle ottiche Carl Zeiss serie F, prive di otturatore centrale e previste per le fotocamere con otturatore a tendina della serie 200 – 2000, compare trionfalmente anche il mastodontico catadiottrico Mirotar 1.000mm 1:5,6, fratellone del più noto 500mm 1:4,5; il Mirotar 1.000mm è un obiettivo luminosissimo e di qualità ottica eccezionale ma, naturalmente, con i suoi 16,5kg di peso richiede tassativamente l’utilizzo su un treppiedi di rocciosa robustezza.
Mentre nel corredo delle monoreflex rivali della Franke & Heidecke si sono avvicendati vari teleobiettivi di notevole potenza, dal Tele-Tessar 500mm 1:5,6 progettato in esclusiva ai 500mm 1:8 Tele-Tessar e Tele-Apotessar allo stesso Mirotar 1.000mm 1:5,6 fino al ciclopico Tele-tessar 1.000mm 1:8 a rifrazione, nel corredo Hasselblad la massima focale disponibile è sempre stata il classico 500mm 1:8, declinato nella versione originale Tele-Tessar e nell’opzione muscolare Tele-Apotessar con vetri ED, modelli peraltro visti anche nel parco ottiche Rollei, quindi la disponibilità del Mirotar costituisce una novità e probabilmente è stato aggiunto in questa brochure statunitense su iniziativa dell’importatore locale al fine di rendere più impressionante la gamma presentata, anche se si tratta più che altro di una comparsata da vetrina, dal momento che l’obiettivo veniva fornito solo su ordine specifico (come annotato in calce alla descrizione) e il suo prezzo corrispondeva a quello di una berlina tedesca di lusso; è comunque storicamente interessante annotare come anche il Mirotar 1.000mm 1:5,6 sia stato ufficialmente rubricato fra le ottiche per Hasselblad, sia pure in questa unica occasione.
Il Mirotar 1.000mm è noto agli appassionati perché, in coppia col Mirotar 500mm, è sempre stato presente nel corredo per fotocamere 24x36mm che utilizzavano ottiche Carl Zeiss, prima Contarex e poi Contax e Rolleiflex, al punto che molti considerano entrambi obiettivi in grado di coprire solo il formato 35mm; se questo è vero per il 500mm, la progettazione del 1.000mm ha invece provveduto ad upscalare la struttura del fratellino, quindi il modello superiore copre effettivamente il 6x6cm, come confermato anche dai diagrammi MTF ufficiali che, oltre a mostrare un rendimento elevatissimo, non si fermano ad una semidiagonale da 21mm (tipica del 24×36) ma procedono oltre fino a 40mm, una quota tipica da ottica 6x6cm.
D’altro canto la montatura del Mirotar 1.000mm 1:5,6 prevede un soffietto posteriore per la messa a fuoco e una flangia con un tiraggio largamente superiore a quello di infinito, un dettaglio che permette di applicare raccordi intercambiabili destinati a differenti apparecchi fotografici; osservando i dati sulla scheda ufficiale, scopriamo infatti che gli attacchi per Contax-Yashica e Rollei SL66 sono prontamente disponibili a catalogo (con relativo codice 9012 e 9016) ma ulteriori adattamenti sono possibili su richiesta, ed è proprio il caso del raccordo per Hasselblad; chissà, col senno di poi, se a Viktor Hasselblad avrà bruciato osservare che l’attacco per la rivale di Franke & Heidecke era disponibile pronta consegna mentre quello per la “sua” monoreflex, che ha scritto con le ottiche Zeiss tante pagine gloriose, rientrava invece fra le opzioni fornite solo su richiesta, un declassamento sicuramente bruciante!
Queste piccole e simpatiche spigolature non fanno altro che rafforzare il mito che circonda da decenni il sistema Hasselblad V e ci ricordano anche le multiformi trasfigurazioni delle quali si è resa protagonista fino ad assurgere ad icona dell’apparecchio professionale per antonomasia.
Un abbraccio a tutti; Marco chiude.
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