Il mondo delle sub mini mi ha sempre affascinato e, soprattutto negli ultimi anni, ha ridestato in me un interesse diverso rispetto al semplice approccio collezionistico.
Questa tipologia di fotocamere è con buona probabilità oggi la meno presente nel vasto mondo delle macchine analogiche che occupano un posto nelle borse o a tracolla degli appassionati di questo tipo di fotografia.
Il loro successo fu in gran parte determinato dalla possibilità di fotografare attraverso apparecchi di piccole dimensioni e di facile utilizzo, almeno per gli standard dell’epoca, apparecchi da avere sempre con sé, per un approccio ricorrente alla fotografia che ebbe poi la massima evidenza con l’uscita ad inizio anni ’60 del sistema Instamatic che nel giro di pochi anni vendette oltre venti milioni di esemplari.
Se oggi definiamo la fotografia con il cellulare un fenomeno di massa, quanto accadde ad inizio degli anni ’60, fatte le debite proporzioni, fu un analogo fenomeno che rese la fotografia accessibile a chiunque.
Se vi capita di percorrere la E45 nel primo tratto da Cesena a Sansepolcro troverete all’uscita di Pieve Santo Stefano un cartello giallo con la scritta Città del Diario e le indicazioni che vi condurranno al Piccolo Museo del Diario che, come testualmente recita il sito internet, è un intenso viaggio multisensoriale e interattivo nato per raccontare l’Archivio Nazionale dei Diari e le sue preziose storie autobiografiche.
L’Archivio raccoglie gli scritti di gente comune, spesso legati a vicende personali che possono risultare di difficile comprensione lette oggi, ma che costituiscono un grande esempio di come il saper leggere e scrivere costituì una forma di emancipazione in grado di fissare nel tempo le proprie idee e i propri sentimenti.
Mi ha sempre molto colpito il significato letterale della parola inglese empowerment, corrispondete del termine italiano di emancipazione. Empowerment significa dare potere, potenziare, termini che meglio si adattano alla possibilità di dar corpo, di fissare, il proprio punto di vista attraverso lo scritto o ad esempio le immagini.
Che questo poi possa costituire un messaggio comprensibile e veicolabile ad altri, spesso non è stato, e non è tutt’ora, negli intenti o nelle capacità di chi lo esprime, a prescindere dalla forma utilizzata che sia uno scritto, una fotografia o quant’altro.
Con questo spirito vi propongo l’esperimento che ho recentemente fatto, portando con me in un breve viaggio in Norvegia una GaMi 16 che tra le fotocamere di piccole dimensioni e piccolo formato realizzate da inizio anni ’50, ha prerogative uniche e soprattutto è di produzione italiana.
Come sempre parto con un po’ di storia e se si tratta di storia della GaMi 16 non si po’ che fare riferimento alle informazioni contenute sul sito www.gami16.it creato ed animato da Gianni Giovannini.
Il progetto della GaMi 16 viene sviluppato già nel 1947 a Milano sotto la direzione dell’Ing. Ambrogio Carini, nella sede delle Officine Galileo di Viale Eginardo 29, in zona Fiera, a due passi oggi dalle Torri di Citylife.

Se siete a Milano e transitate in quella zona, nella direzione che porta verso le autostrade, vi capiterà di scorgere il vecchio edificio di Via Eginardo 29, situato proprio di fronte al primo padiglione di Fieramilano City, edificio già sede della Fratelli Koriska e dal 1934, con l’acquisizione di quest’ultima da parte di Galileo, sede delle Officine omonime di Milano.

Realizzato tra il 1920 e il 1921 su progetto degli ingegneri E. Griffini e G. Manfredi, a differenza di molti altri edifici industriali, lo stabile di Via Eginardo è ancora presente a testimonianza degli anni di storia che lo videro protagonista non solo della produzione della GaMi 16 ma anche della realizzazione di microscopi, ottiche da ripresa e ottiche da proiezione ambiti nei quali la Galileo di Milano era una eccellenza assoluta.
La GaMi 16 verrà prodotta a valere dal 1953, a differenza della Condor, realizzata dalle Officine Galileo di Firenze, la cui produzione inizierà già nel 1948.

Tra i due apparecchi vi è tuttavia una notevole differenza, non solo per il formato di pellicola utilizzato.

Le Condor sono macchine di concezione abbastanza semplice, costituite da un corpo in pressofusione sul quale è installato un tubo porta ottica collassabile, alla cui estremità è montato un otturatore centrale dotato di un’ottica a tre lenti di produzione Galileo con apertura massima a 3.5 che verrà aumentata a 2.8 nel modello Ic.
Il tubo è collegato al corpo macchina attraverso un elicoidale di messa a fuoco accoppiato al telemetro, visibile attraverso un secondo mirino appaiato a quello di ripresa.
Per quanto apprezzi molto questi apparecchi, dei quali sono un raccoglitore seriale, devo spesso constatare che molti sono invecchiati male a causa della qualità dei materiali utilizzati, e devo constatare anche che la serie Condor, compreso il modello II uscito nel 1952, nulla ha a che vedere con l’originalità, la sofisticazione e il vasto corredo di accessori della piccola – grande GaMi.

La fotocamera milanese è per datazione e caratteristiche il vero precursore della generazione di apparecchi che si svilupperà dagli anni ‘50 e manterrà imbattuto per tre decenni il primato del fotogramma di maggiori dimensioni realizzato sul pellicola 16mm non perforata, pari a 12×17 mm, superato solo dall’uscita ad inizio anni ’70 del formato Pocket Instamatic, che è di fatto un rimake del formato 16 mm, che consentì di raggiungere la dimensione dei fotogrammi di 13×18 mm.
A parte l’austriaca Goerz Minicord uscita nel 1951, la grande ondata di apparecchi per pellicola 16mm arriverà dopo la GaMi: nel 1955 con la Minolta 16, nel 1959 con la Mamiya 16 automatic e nel 1963 con la Rollei 16 giusto per citare alcuni modelli.
Nessuno di questi riuscirà mai ad eguagliare l’insieme di caratteristiche e versatilità della GaMi pur mantenendo in molti casi un complessivo standard qualitativo di rilievo.
Una nota a parte merita la Tessina, prodotta dalla Concava di Lugano dal 1957, che oltre ad utilizzare un diverso formato di pellicola, in questo caso 35 mm in speciali caricatori con fotogrammi di 13,5×20 mm, ha dal mio punto di vista il forte limite nella frapposizione, tra obiettivo di presa e pellicola, di uno specchio reflex che finisce per limitare i buoni risultati dell’ottica a cinque lenti della quale è dotata.
Le Minox non appartengono invece al novero degli apparecchi paragonabili alla GaMi poiché utilizzano un formato di pellicola più piccolo che fornisce fotogrammi di soli 8×11 mm.
Vi è tuttavia una similitudine tra GaMi 16 e Minox che risiede nell’articolato sistema di accessori, che adattano queste due fotocamere ad una molteplicità di situazioni di ripresa e che hanno un punto di incontro nella tank per lo sviluppo dei film, realizzata da Minox in bachelite già in epoca pre bellica, che tutta via ha, nella reinterpretazione a cura delle Officine Galileo di Milano, un splendido esempio di ingegno realizzativo.



La sede di Milano delle Officine Galileo gode di una autonomia operativa e commerciale che consente di realizzare per la GaMi 16 una rete distributiva internazionale presente in ben centoventisei città. Questo a differenza delle fotocamere Condor per la cui distribuzione la Galileo di Firenze sviluppa un accordo commerciale con Ferrania che porta alla ben nota doppia marchiatura degli apparecchi.
La GaMi 16 pesa 290 grammi, ha dimensioni di 115 x 55 x 27 mm, è dotata di uno spettacolare Esamitar 25 mm 1,9 a sei lenti con messa a fuoco, ottenibile attraverso lo spostamento del piano pellicola, fino alla distanza minima di 50 cm, di avanzamento motorizzato con autonomia di tre fotogrammi, di tempi da ½ secondo a 1/1000, di correzione automatica del parallasse e correzione diottrica del mirino a +/- 3 diottrie.

Ha un filtro giallo incorporato, inseribile attraverso la levetta posta sotto l’ottica, un telemetro per la messa a fuoco integrato nel mirino ed un esposimetro ad estinzione, visibile nel mirino, accoppiato con i tempi ed in grado di fornire il valore del diaframma da impostare attraverso un intelligente sistema a pittogrammi.
La GaMi 16 è quindi un apparecchio completo e molto facile da utilizzare.
Scattare oggi con una Minox, piuttosto che una Minicord, è invece piuttosto complicato, da un lato per l’indisponibilità delle pellicole, problema del quale per certi versi soffre anche la GaMi, e dall’altro per la scarsa qualità dei risultati che, sulla base della mia esperienza, hanno margini di miglioramento solo dopo prove ripetute, sia in fase di ripresa sia di sviluppo.
Riguardo alle pellicole, occorre osservare che tutti gli apparecchi che funzionano con pellicola non perforata possono essere usati con film opportunamente tagliato, mentre è di fatto oggi pressoché impossibile usare fotocamere come la Minicord che necessitano di film perforato in ragione del sistema di avanzamento a graffa simile a quello di molti proiettori cine.
Va un po’ meglio con le giapponesi Minolta e Mamiya pur restando alcuni limiti nella dimensione del fotogramma ed, anche in questo caso, nella necessità di prendere un po’ la mano in fase di scatto per evitare il micromosso.
Tutte le submini hanno infatti più o meno presente il problema della mancanza di un modo stabile di impugnare la fotocamera, di scarsa ergonomia e di un peso molto ridotto che ne accentua l’instabilità in fase di scatto.

Per quanto io abbia una grande passione per le Minox 8×11, fotografare ad esempio con un modello A significa una volta su due ritrattare l’indice su una parte del fotogramma se non si è più che concentrati durante l’uso.
Proprio l’esperienza di utilizzo e i risultati sono invece due dei principali aspetti distintivi della GaMi 16 rispetto al resto degli apparecchi submini dell’epoca.
Ho quindi provato a portare con me una GaMi in occasione di un recente breve viaggio e questo mi ha consentito non solo di testarne la qualità ma anche di valutare l’approccio in termini di scelta della pellicola, taglio e confezionamento dei rulli, modalità di ripresa e sviluppo.
Vi è subito da dire che con la GaMi è ragionevolmente possibile scegliere qualsiasi tipo di emulsione, in quanto questa fotocamera, a differenza di quasi tutte la altre submini, è dotata di una vasta gamma di tempi di otturazione e di una chiusura minima del diaframma a 11.
Nelle Minox ad esempio, l’apertura fissa a 3.5 limita molto la gamma di sensibilità che già a 100 ASA crea problemi con riprese in pieno sole se non si ricorre all’uso di un filtro ND che compensi almeno di due diaframmi.
Del resto questi apparecchi furono pensati in anni nei quali la gamma di sensibilità delle pellicole era molto limitata e le pellicole a bassa sensibilità consentivano di ridurre molto la grana visibile su formati così ridotti.
Proprio il tema della grana, soprattutto se si utilizzano pellicole bianconero, è un punto di attenzione anche per la GaMi ed in questo senso, come facevo cenno prima, il problema non è dipendente solo dal tipo di pellicola ma anche dalle modalità di esposizione e dallo sviluppo.

Chi ha un minimo di esperienza rispetto a quest’ultimo tema, sa che sovra o sottoesposizioni spinte, piuttosto che modalità di sviluppo non adeguate, possono evidenziare il fenomeno della grana anche in pellicole a bassa sensibilità, con effetti in termini di mancanza di mezzi toni o perdita di definizione che su un negativo 17×12 mm possono avere una rilevanza maggiore rispetto a formati più grandi.

Vi sono poi due modalità di confezionamento della pellicola e mi rendo conto che questo approccio alla Mc Gyver possa scoraggiare qualcuno.
Un minimo di impegno è comunque ben ripagato dai risultati che otterrete.
Il primo, più a portata di mano, è quello di utilizzare la striscia da 16 mm che avanza dal taglio di un film 120 per ottenere un rullo 127.
La lunghezza della striscia ottenuta è perfetta per realizzare i 30 fotogrammi della capacità massima di un rullo per GaMi 16.
Il secondo metodo presuppone di disporre della taglierina e della bobinatrice prodotte dalle Officine Galileo, accessori non di facile reperibilità.

In questo caso si è però maggiormente agevolati nel poter utilizzare come base una pellicola 35 mm ottenendo, da un rullo 36, pose due rulli 30 pose per la GaMi.
Di seguito le procedure per il taglio ed il confezionamento della pellicola e per il caricamento dell’apparecchio, operazioni che, almeno sino alla chiusura del caricatore, devono essere effettuate al buio assoluto.






Vediamo ora qualche aspetto pratico di utilizzo dell’esposimetro.
All’inizio è preferibile accompagnare l’uso del sistema di calcolo di tempi e diaframmi della fotocamera con qualche lettura ragionata con un esposimetro esterno.
Ragionata perché sappiamo bene che due sistemi di lettura diversi, ancorché puntati su soggetti simili non forniscono di norma letture uguali. Non è quindi la coincidenza del valore di lettura ma semmai l’entità dello scarto che deve far rifletter sulle modalità utilizzate.


Un esposimetro ad estinzione non ha batterie con diversi valori di taratura, non ha cellule in esaurimento ha semplicemente la necessità che il fotografo ci prenda la mano ed eviti errori grossolani.
Il capitolo dello sviluppo apre a mille discussioni sulla tipologia di prodotti usati o sulle modalità di trattamento.
Se trattate da Voi il negativo, seguite le procedure che siete abituati ad adottare in relazione al tipo di film utilizzato, privilegiando tempi di trattamento più lunghi a vantaggio di una maggiore uniformità di resa, uniformità che è già penalizzata in partenza dall’utilizzo delle spirali 16 mm i cui bordi hanno dimensioni tali da coprire una parte della superficie dei fotogrammi con il rischio che la parte coperta risulti poi sottosviluppata.
In questi casi può anche essere utile un prebagno di un paio di minuti a temperatura di sviluppo.
Di norma per sviluppare il negativo, uso una spirale Jobo 2001a utilizzabile con le tank del sistema 2500. Si trovano usate spirali di altre marche compatibili anche con il sistema Paterson.
In tutti i casi potrete utilizzare queste spirali per sviluppare anche il film 110 che ad esempio Lomograpy ha reso disponibile orma da qualche tempo.
Sconsiglio invece di utilizzare per la GaMi 16 il film 110 estratto dal caricatore pocket di attuale produzione Lomography.
La procedura è infatti in po’ elaborata e dai risultati incerti: occorre rompere al buio assoluto il caricatore di plastica, tagliare le due estremità sagomate e perforate ed inserire la pellicola nei caricatori GaMi, tagliando obliquamente la prima parte in modo che il film possa essere agganciato al rocchetto traente.
Da un caricatore Pocket da 12 pose otterrete 15 fotogrammi dal formato non prevedibile in quanto la perforazione della pellicola e la pre esposizione delle scritte e della separazione dei fotogrammi potrebbero del tutto inficiare il risultato.

Ed ecco qualche scatto effettuato a Oslo con la GaMi 16, con Ilford PAN F ottenuta da un rullo 120 e sviluppata con Compard R09 One Shot.







Nella capitale aveva sede l’importatore GaMi per la Norvegia che era all’epoca la Bredal Tollef in Wessels Gate 8.
Tollef Ravn Bredal – 22 luglio 1869 – 19 settembre 1960 è stato un importatore e grossista nonché uomo politico norvegese.
Sedette nel consiglio comunale di Oslo dal 1919 al 1937, dal 1925 anche alla presidenza.
Fu eletto vicepresidente e capo del comitato finanziario a Oslo nel 1920, e divenne il capo del consiglio di contea nel 1923.
Con diverse fortune la storia di Bredal è per certi versi simile a quella della famiglia Hasselblad nei cui esponenti è storicamente presente l’attività di commercio ed importazione e quella politica.
Sono quindi andato in Wessels Gate dove il Bredal Building è ancora presente anche se oggi non più sede della società.

Voglio in chiusura ringraziare Gianni Giovannini per il supporto che mi ha fornito con notizie ed indicazioni pratiche sull’utilizzo della GaMi, nonché per aver sopportato le mie continue richieste.
Massimiliano Terzi
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Max complimenti !!! Un articolo di assoluto valore che aiuta a conoscere la meravigliosa GaMi16…. e invoglia ad utilizzarla….infatti ancora oggi è possibile avere risultati di assoluto valore con questo gioiello italiano !!! Se avete una GaMI16 fatela scattare !!!!!!
Gianni Giovannini
Grazie Gianni!
Max