Vorrei innanzitutto chiarire che il termine Tolleiflex non è da intendersi in tono dispregiativo, facendo così in modo che questa mia affermazione assuma, agli occhi dei lettori, il significato di una excusatio non petita.
Da sempre combatto i fanatismi e le prese di parte su questo o quel marchio che prescindano dall’accettare il principio della soggettività delle opinioni e delle scelte altrui, ma devo tuttavia dire che vi sono situazioni dalle quali anch’io mi lascio trasportare.
Lo faccio sostenendo in modo convinto che una folding grande formato non può che essere una Technika, che una 35mm a telemetro non può che essere una rossa di Wetzlar o che una biottica non possa che essere una Rolleiflex.
Già discuterei sul fatto che una monoreflex 6×6 debba essere svedese, piuttosto che una reflex 35 mm debba essere la Regina della Nippon Kogaku, per quanto io adori questi modelli e questi marchi.
Il motivo delle mie convinzioni risiede nel fatto che attribuisco loro, sulla base della mia personale esperienza e quindi dell’abitudine a maneggiare quelle fotocamere, una migliore utilizzabilità e migliori risultati.
Il che non significa che non abbia mai usato ed apprezzato una Intrepid piuttosto che non possegga ed utilizzi ogni tanto una Zorki, una Cann EOS1 o una Ikoflex.
Questa apertura alla diversità, mi ha portato spesso a raccogliere i cloni, più o meno riusciti, delle fotocamere che reputo importanti e proprio in questi giorni, osservando la mia piccola raccolta di biottiche, mi sono detto che avrei dovuto celebrarle.
Alla base della passione per una marca, un modello, piuttosto che per un altro vi può essere l’immagine che il marchio o il modello hanno proiettato negli anni, piuttosto che l’esperienza nell’uso e, almeno nel mio caso, il fatto di aver ottenuto risultati soddisfacenti ovvero di non aver patito delusioni.
L’utilizzabilità, non sempre sinonimo di uso semplice, finisce per diventare una questione soggettiva e rafforza le considerazioni prima espresse sul fatto che non esista una fotocamera migliore in senso assoluto.
Quando però l’adozione di quella particolare tipologia di macchina fotografica o di quel particolare modello coinvolge un pubblico molto ampio, matura necessariamente nella coscienza collettiva la convinzione che quel mezzo sia effettivamente migliore.
Sapere ad esempio che Ansel Adams fu uno dei primi utilizzatori di Hasselblad, già dal primo modello 1600F e lo sarebbe poi stato per tutta la sua carriera, ha sempre avuto su di me un grande effetto, così come sapere che questa fotocamera sia stata sulla luna.
Benché io oggi utilizzi quasi esclusivamente per il medio formato una Rolleiflex 6008 che, se vogliamo pur con le dovute riserve, di Hasselblad è una copia.
E che copia!
Per le biottiche occorre fare un discorso a parte poiché a differenza delle 35 mm a telemetro o delle monoreflex medio formato, il fenomeno si sviluppa alla fine degli anni ’20, nel decennio successivo ha imitatori direi esclusivamente tedeschi e nel secondo dopoguerra ha il massimo sviluppo per poi tramontare dagli inizi degli anni ’60 attraverso un lento ma inesorabile declino.
Il concept della biottica non era nuovo all’epoca nella quale Franke e Heidecke decisero di commercializzare il primo modello.
Fu però la loro interpretazione di biottica che convinse il mercato e che spinse l’azienda di Braunschweig ad investire sui modelli successivi nella ricerca di soluzioni sempre più innovative.
Se paragoniamo una Old Standard al resto delle fotocamere tedesche del periodo, siamo grosso modo a metà degli anni ’30, colpisce la modernità di questo apparecchio e delle soluzioni adottate, rispetto alle quali anche Victor Hasselblad attingerà un decennio dopo quando progetterà la prima monoreflex.
Un esempio su tutti è il principio di caricamento della pellicola, identico sulla Old Standard come sui magazzini Hasselblad.
Dopo la Old Standard arrivò la Automat con il suo sofisticato e rivoluzionario sistema di individuazione dell’inizio pellicola e dell’attivazione del contafotogrammi.
Siamo nella seconda metà degli anni ’30.
Questo sistema fu, che io sappia, inimitato salvo rare eccezioni, soluzioni non certo citabili come esempio di buon funzionamento, si pensi ai modelli più recenti della Flexaret di Meopta.
Sarà proprio questa complessa perfezione delle biottiche Rolleiflex a garantirne una inimitabilità, dal mio punto di vista ben maggiore, rispetto al resto dei concept famosi quali ad esempio Leica e Hasselblad.
Spesso le copie sono condizionate dalla necessità di dover contare, in prima battuta, su un prezzo più favorevole e questo porta al sacrificio di qualche attributo o alla necessità di introdurre meccanismi di funzionamento diversi.
Mi ha colpito il passaggio che ho recentemente letto e riportato nella terza parte dell’articolo su Ferrania a Milano, nella spiegazione fornita dagli Architetti Achille e Piergiacomo Castiglioni a spiegazione delle scelte progettuali della loro “fotocamera per ragazzi” che non fu mai prodotta.
“La produzione attuale per questo tipo di apparecchi (si riferiscono a fotocamere di bassa fascia di prezzo) è orientata a mettere sul mercato oggetti formalmente il più possibile simili alle macchine di maggior pregio e raffinatezza tecnologica e quindi di maggior costo. Lusingando le aspirazioni al prestigio fittizio derivante dal possesso di un apparecchio «di lusso», tali modelli economici ed elementari, realizzati in plastica stampata a finta-pelle, vengono «decorati» con finiture di finto metallo (sempre plastica), con zigrinature, indici e segni grafici del tutto inutili e perfino con placche simulanti esposimetri a cellula inesistenti. Un esempio tipico di aberrazione del design e di figurazione scorretta e incongruente”.
Spesso nelle imitazioni Rolleiflex troviamo, anche se non esattamente in quei termini, le caratteristiche sopra citate.
Meno frequentemente invece sono state prodotte copie Rolleiflex che tentarono di introdurre soluzioni innovative pur mantenendo il complesso di prerogative tipico dei modelli originali.
Devo a questo proposito dire che tra questi modelli annovero senza ombra di dubbio la Voigtlander Superb e la Zeiss Ikon Contaflex e Ikoflex.
La Contaflex tuttavia ebbe vita breve e negli anni ’50 il nome fu riproposto per una più fortunata serie di SLR 35mm ad otturatore centrale.
A Voigtlander doveva invece non importare particolarmente il fatto che i vicini di casa a Braunschweig, entrambi con un passato più o meno recente nell’azienda, avessero lanciato sul mercato un prodotto che in poco più di dieci anni sfornò quattrocentomila esemplari.
Dico che non doveva importare particolarmente perché la risposta fu abbastanza tiepida e fu costituita da un modello semplificato, la Brillant, entrato in produzione nel 1932, che proprio per il materiale con il quale era realizzato può a pieno titolo essere definito una Tolleiflex.
La Superb invece ha alcune interessanti prerogative, soprattutto perché anticipa alcune soluzioni che di li a pochissimo verranno adottate anche sulle Rolleiflex, in particolare la possibilità di lettura dell’alto dei tempi impostati e la correzione automatica del parallasse.
La Superb inoltre ha il sistema dello scorrimento della pellicola in orizzontale e non in verticale come nella Rolleiflex e come nella quasi totalità delle sue copie, il che la posiziona a mio giudizio tra le più originali reinterpretazioni.
Diverso è il discorso della Ikoflex di Zeiss Ikon, arrivata un anno più tardi rispetto alla Superb ma rimasta in produzione, pur con notevoli aggiornamenti, fino al 1960.
La più completa e, sempre a mio giudizio, affascinante Ikoflex è la Favorit prodotta dal 1957.
Nel dopoguerra non sfuggì all’industria fotografica giapponese l’opportunità di sviluppare copie della biottica di Braunschweig che venne declinata da Mamiya, Yashica e Minolta, giusto per citare i più noti esempi, in numerosi modelli e varianti.
Vale la pena di menzionare anche se brevemente la saga delle Mamiyaflex in particolare della serie C ad ottiche intercambiabili.
La questione dell’inetrcambiabilità delle ottiche fu affrontata anche dalla Franke e Heidecke nella prima metà degli anni ’50 fino ad arrivare alla definizione di un prototipo che tuttavia non entrò mai in produzione.
Furono invece sviluppati i modelli Tele e Wide che ebbero differenti fortune e periodi di produzione.
La serie C Mamiyaflex culminò nella C220 e C330 Professional F che rimasero in produzione anche più a lungo dell’ultima biottica Rolleiflex.
Queste fotocamere barattarono l’intercambiabilità degli obiettivi, con un peso e un ingombro esagerati rispetto alle altre TLR, soprattutto se corredate delle ottiche di più lunga focale.
Il corredo di ottiche era di grande rispetto e copriva focali dal 55 al 250 mm.
La Yashica si dimostrò invece invece la più “filorolleiflex” fino a produrre anche una versione 4×4 in finitura grigia.
Anche attualmente la Yashica 124G, prodotta dal 1970 al 1986, è a ragione considerata una valida alternativa economica alla Rolleiflex 3.5T alla quale è ispirata.
Anche oltre cortina il fenomeno Rolleiflex non passò inosservato.
Nell’immediato secondo dopoguerra sappiamo che l’Unione Sovietica smantellò gli impianti di molte aziende tedesche delle zone cadute sotto la propria influenza.
Una delle industrie a beneficiare di attrezzature e competenze fu la GOMZ posizionata nell’odierna San Pietroburgo che nel 1946 lanciò la Komsomolets una copia semplificata della Voigtlander Brilliant.
Che poi, detto tra noi, se si semplifica una Brillant il rischio è di ottenere una scatola di pomodori pelati con due lenti e un cappuccio.
Dalla Komsomolet derivò nel 1949 la Lubitel che, rispetto al modello originario, aveva una gamma più ampia di velocità di otturazione che andava da 1/10 a 1 / 200 di secondo oltre alla posa B. L’ottica di visione era un 60mm 2.8 e il suo obiettivo di presa un 75mm 4.5.
La messa a fuoco, come avveniva anche sugli altri modelli più economici, non era su vetro smerigliato ma su una lente biconvessa che attribuiva al mirino una luminosità maggiore e una messa a fuoco costante qualsiasi fosse la regolazione dell’obiettivo.
Il mirino a pozzetto aveva qui fondamentalmente la funzione di inquadratura.
Dalla Lubitel derivò il modello 2, ed i più recenti modelli 166, oltre alla stereo Sputnik.
Possiamo dire che la Lubitel sia il modello di biottica più longevo, longevità spinta anche dall’ingresso tra le fotocamere per Lomografia.
Anche Kodak produsse biottiche quali, ad esempio, le Duaflex, una serie di fotocamere molto semplificate in produzione dal 1947 al 1960 che utilizzavano pellicola in rullo 620.
Visto che in questo periodo sto scrivendo molto di Ferrania non potevo non citare la Eiloflex.
Tra le biottiche economiche la Elioflex, soprattutto la versione 2, è considerata come uno dei modelli con le migliori caratteristiche.
Presentata nel 1950 la fotocamera aveva come le altre Ferrania prodotte a Milano in quegli anni, un corpo in lega d’alluminio pressofuso che gli conferiva le caratteristiche di leggerezza precisione e robustezza rispetto alle altre fotocamere TLR economiche prodotte in lamierino o bachelite.
L’obiettivo era prodotto dalle Officine Galileo ed era denominato MONOG ovvero MONO lente, Officine Galileo.
La cosa sorprendente di questa ottica, come delle altre a corredo delle Ferrania quali ad esempio la Rondine e la Ibis, era l’eccellente definizione e la modesta perdita di qualità ai bordi.
La Elioflex 2, presentata un paio d’anni più tardi, montava invece un obiettivo a due lenti non più Galileo. Sappiamo infatti che la collaborazione tra Ferrania e l’azienda fiorentina sarebbe di li a poco cessata per ragioni che ancora oggi non sono chiarissime.
La Elioflex 2 ha il meccanismo contro le doppie esposizioni e un mirino il cui principio è in tutto e per tutto simile a quello della Lubitel anzi descritto.
Dal punto di vista estetico l’Elioflex ha i due selettori per tempi e diaframmi disposti in modo del tutto simile a quello delle Rolleiflex.
La lista delle copie Rolleiflex potrebbe continuare a lungo ma in tutti i casi ci troveremmo di fronte a fotocamere che non riuscirono mai a raggiungere per intero le caratteristiche costruttive e di utilizzabilità dei modelli di Braunschweig.
Con l’affermarsi delle monoreflex di grande formato il fenomeno delle TLR andò via via in calando e la stessa Franke e Heidecke, che nel corso degli anni ’50 sfornò più di quindici nuovi modelli, fu costretta nel decennio successivo a rivedere radicalmente la propria politica di prodotto lanciando nel 1966 la prima monoreflex 6×6: la SL66.
Abbiamo sin qui parlato delle fotocamere ispirate alla Rolleiflex anche nell’utilizzo della pellicola in rullo 120 o 620 come nel caso della Kodak visto sopra.
A parte la Contaflex prebellica che utilizzava pellicola 35 mm, della quale ho parlato nella prima parte dell’articolo, vi è poi un mondo costituito da modelli TLR che utilizzano altri tipi di pellicola.
Ad esempio tra le sub mini l’austriaca Minicord della Goerz o la svizzera Tessina commercializzata dalla Concava di Lugano, piuttosto che per il formato 35 mm la tedesca Optima Reflex di Agfa, giusto per citarne alcune.
La lista delle fotocamere che ho menzionato è parziale e molti altri sono i produttori che hanno imitato, con diversa fortuna, la biottica di Braunschweig.
Come già mi è capitato di scrivere, tutto ciò spiega il fatto di come la Rolleiflex, al pari del famoso settimanale di giochi enigmistici, sia di certo e a pieno titolo tra le fotocamere che vantano innumerevoli tentativi di imitazione.
Massimiliano Terzi
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