Qualche tempo fa, giocando con il calembour Rolleiflex Tolleiflex, pubblicai su SENSEI un articolo nel quale descrivevo, per sommi capi, il vasto mondo delle imitazioni della famosa e celebrata biottica di Braunschweig osservando, in primis, come in moltissimi casi ci si trovasse di fronte e mere riproduzioni di forma che nulla avevano a che vedere con funzionalità, qualità dei materiali e delle ottiche come nel caso delle Rolleiflex originali.
Più raramente invece, alcune interpretazioni avevano caratteristiche interessanti, non solo per le qualità costruttive ma per l’ingegno di chi le aveva progettate e realizzate, adottando soluzioni originali o semplificando attributi tipici delle Rolleiflex senza alterarne in modo significativo la qualità del risultato fotografico.
Nel lasso di tempo trascorso dalla stesura e pubblicazione di quell’articolo, ho avuto modo di vedere ed in alcuni casi utilizzare biottiche di altre marche oltre a quelle che ebbi occasione di citare allora.
Tra queste mi hanno colpito, per ragioni profondamente diverse, due apparecchi prodotti in contesti differenti tra loro e con altrettanto differenti fortune.
Si tratta della tedesca Rollop e della cinese Pearl River.

Per quanto nulla accomuni queste fotocamere, se non l’avere due obiettivi e di utilizzare pellicola 120, esse rappresentano, dal mio punto di vista, il tentativo più vicino e quello più distante, non solo in senso geografico o geopolitico, di ispirazione alle famose biottiche tedesche.
Nel caso poi della Pearl River, la fotocamera è uno dei modelli appartenenti alla vasta gamma di quelli realizzati, dal secondo dopoguerra, nella Repubblica Popolare Cinese, ricompresi nella sottocategoria degli apparecchi destinati all’esportazione anziché al mercato interno.
Devo ammettere che prima di maneggiare questa macchina non mi era mai capitato di utilizzare e approfondire le origini di un apparecchio di produzione cinese, ne ho quindi approfittato per acquisire e condividere qualche informazione su un mercato poco noto e direi poco frequentato anche dal mondo del collezionismo.
Come già ho osservato per le fotocamere di produzione sovietica, anche per quelle cinesi, è riduttivo pensare ad una generalizzata produzione di massa improntata alla scarsa qualità produttiva.
Per quanto vicine, le industrie fotografiche sovietica e cinese sono tra loro profondamente diverse per origine, sviluppo temporale e tipologia di produzione.
Partiamo dalle origini.
Mentre in Unione Sovietica la produzione di apparecchi ed ottiche venne avviata nella seconda metà degli anni ’20 nell’ambito del piano di industrializzazione voluto da Stalin ed ebbe come scopo quello di affrancare l’economia sovietica dall’importazione di materiale dall’estero, l’industria cinese si sviluppa dal secondo dopoguerra con il principale obiettivo di soddisfare la domanda interna di attrezzature fotografiche con prodotti che in molti casi recano incisi slogan governativi.
Una seconda sostanziale differenza sta nella diversa ispirazione e nella differente evoluzione nel tempo dei modelli.
Nel caso dei sovietici, la vasta gamma di apparecchi e versioni è purtroppo conosciuta solo in parte, prevalentemente per le copie Leica II o per le copie Contax, queste ultime sviluppate nel secondo dopoguerra a seguito della cooptazione della tecnologia ottica e meccanica derivante dagli impianti rimasti nei territori tedeschi sotto il loro controllo.
Nella produzione cinese, ancor meno nota, troviamo fotocamere ispirate a differenti modelli produttivi, non necessariamente occidentali, che spaziano per l’appunto dalla biottiche tedesche, alle reflex Minolta, alle folding 120 Mamiya fino ad arrivare ad una copia della Leica M4 con relative ottiche come descriverò più avanti in modo più approfondito.
Terzo ed ultimo aspetto legato alle modalità di apertura al mercato estero.
Per l’industria sovietica, che nasce ed opera in una economia chiusa, prende piede all’inizio degli anni ’60, almeno per i prodotti fotografici, il sistema dello scambio estero con il sistema merci contro merci che ebbe in Italia un esponente di rilievo nella FOS, acronimo di Foto Ottica Sovietica, iniziativa commerciale sviluppata dal produttore brianzolo di macchine da scrivere ANTARES.
La Cina si affaccerà a metà anni’60 al mercato estero e realizzerà produzioni ad hoc che perdono le classiche scritte con ideogrammi ed acquisiscono nomi inglesi. Questo gruppo di modelli costituisce solo una parte limitata delle più ampia ed interessante produzione destinata al mercato interno.
Un esempio, che risale al 1964, riguarda il nome Seagull che fu scelto come marchio registrato della Shanghai Camera Factory, ed applicato a tutte le fotocamere allora in produzione destinate al mercato estero.
Faccio un piccola digressione su questa azienda tutt’ora attiva e situata nella contea di Song Jiang, a circa 50 chilometri dalla stessa Shanghai. L’attuale impianto fu costruito nel 1978, ed in esso confluirono tre fabbriche di fotocamere presenti nella città cinese.
Attualmente l’azienda produce apparecchi digitali e vi suggerisco di visitare il sito che attraverso il sistema di traduzione automatica di Google consente di leggere testi e didascalie normalmente incomprensibili, almeno a me. Troverete anche un video che vi suggerisco di guardare, nel quale viene mostrata un’ampia carrellata dei modelli prodotti.
Scoprirete anche che viene tutt’ora prodotta una biottica digitale il cui secondo obiettivo non serve più per inquadrare ma per proiettare le immagini scattate.

Fino agli anni ’90 nell’impianto furono realizzati tre tipi di reflex 35 basati su fotocamere Minolta della serie SR, risalente all’inizio degli anni ’60, mentre le folding 120 ispirate alle Mamiya Six furono prodotte sino alla prima metà degli anni ’80.
Secondo Douglas Denny, autore del libro Cameras of the People’s Rupublic of China, una delle realizzazioni più interessanti della Shangai Camera, fu la Red Flag 20, una copia della Leica M4 voluta alla fine degli anni ’60, nel periodo della rivoluzione culturale, da Jiang Qing, moglie di Mao Tze Tung per dimostrare la capacità dell’industria cinese nel produrre beni di qualità.

realizzata attraverso l’approccio del reverse engineering, termine che sottende il concetto dello smontare e copiare le singole parti, la Red Flag fu realizzata in un numero limitato di pezzi che si ipotizza inferiore alle duecento unità. Ben inferiore il numero della produzione delle ottiche ad essa dedicate. I corredi, dal costo molto elevato, non approdarono al mercato interno se in un numero molto limitato di esemplari e costituiscono una rarità collezionistica
Accanto alle biottiche Seagull, che non solo è più frequente incontrare nel mercato dell’usato ma che furono prodotte in interessanti versioni, vi sono apparecchi TLR di concezione più semplice che furono appositamente studiati per il mercato estero.
Un esempio è la biottica Pearl River prodotta nella fabbrica di Guangzhou, meglio nota come Canton, capitale della provincia cantonese di Guangdong.

L’esemplare mostrato in foto è del 1971, informazione desumibile dalle prime due cifre del numero di matricola posizionato sull’ottica di ripresa che indicano l’anno di produzione, ed ha funzioni estremamente semplificate ad iniziare dal sistema di avanzamento basato sulla classica collimazione del numero presente sulla carta protettiva della pellicola nella finestrella rossa presente sul dorso.

Anche la gamma dei tempi dell’otturatore centrale è limitata ed è compresa nell’intervallo 1/25 – 1/250 di secondo oltre la posa B.

La Pearl River prende il nome dal fiume del Guangdong ed è complessivamente di qualità ben inferiore a quella delle Seagull prodotte a Shangai adottando nella componentistica, fatto alquanto curioso, alcune parti di produzione giapponese.

Questa biottica fu prodotta anche marchiata Five Goats dalla leggenda dei cinque agnelli legata alla città di Guangzhou.
Il marchio Pearl River è stato inoltre utilizzato per la produzione di una reflex 35 mm con mirini intercambiabili siglata S-201, sempre di ispirazione Minolta , realizzata da una azienda cinese diversa da quella di Canton che utilizzò un marchio già esistente e testato in ambito internazionale.
Di seguito qualche scatto di prova della biottica.


Per quanto la prova sia frutto di puro empirismo e per quanto le immagini siano scattate con pellicola scaduta che ha comunque mantenuto una discreta qualità, la resa della Pearl River si può complessivamente definire discreta.
L’ottica, che avevo accuratamente smontato e pulito prima dell’utilizzo, non evidenzia difetti significativi se non nel trattamento antiriflesso particolarmente sollecitato dalla situazione di ripresa.
La seconda biottica non comune, è la tedesca Rollop prodotta dalla LIPCA acronimo di Lippische Camerafabrik che aveva sede in Germania a Barntrup e fu fondata nel 1947 da Fritz Richter, dalla moglie Charlotte e da Karl Fischer.

I Richter erano in precedenza proprietari della Kamera Werk C. Richter a Tharandt comune situato ad una ventina di chilometri da Dresda
L’impresa, fondata nel 1932 a seguito dell’acquisizione da parte di Fritz Richter della Camera Werk Merkelche, iniziò dal 1933 la produzione delle biottiche Reflecta, progetto già sviluppato sulla carta dalla precedente proprietà.
La Kamera Werk C. Richter, rimasta nel 1945 nel territorio tedesco sotto influenza sovietica e requisita dall’amministrazione statale, seguì la sorte di molte altre aziende presenti nel distretto sassone di produzione di fotocamere. Fu inizialmente fatta confluire con la Welta nel VEB Welta Kamera Werk e sul finire degli anni ‘50 nel VEB Kamera und Kinowerk Dresden, che sarebbe poi divenuto VEB Pentacon nel 1964.

Della Reflekta prebellica fu poi prodotta nel secondo dopoguerra dal VEB Welta Kamera Werk la versione II che ne riprendeva le forme squadrate.
Nella tradizione delle biottiche, LIPCA sviluppa una nuova serie di interessanti apparecchi marchiati ROLLOP, nome che ricorda un modello folding 120, la ROLL- OP, della Plaubel prodotto dal 1933 al 1939.

Non è chiaro se vi sia stato un esplicito accordo commerciale tra Plaubel e LIPCA per l’utilizzo del nome, non più utilizzato nel secondo dopoguerra dall’azienda di Francoforte su Meno che proseguì fino alla prima metà degli anni ’50 nella produzione dei modello Makina, marchio quest’ultimo ceduto successivamente alla giapponese Kabushiki Kaisha Doi che dal 1978 produsse le omonime folding con ottiche Nikkor.
Le biottiche Rollop sono fotocamere molto interessanti sia per la progettazione, decisamente più moderna delle Refelkta, sia per le ottiche a corredo fornite dalla ENNA di Monaco.

Dal 1956 viene prodotto il modello a mio avviso più interessante, corredato di un sistema di caricamento automatico della pellicola e di un obiettivo ENNA con schema Tessar con luminosità aumentata a 2.8.
La fotocamera è dotata di un otturatore Prontor SVS, devo dire non tra i miei preferiti, con velocità da 1 secondo a 1/300 di secondo oltre alla posa B. Adotta inoltre la possibilità di accoppiare la velocità dell’otturatore e l’apertura del diaframma su un valore EV prestabilito piuttosto che disinserire il blocco e poter impostare liberamente tempi e diaframmi.
Il sistema di caricamento della pellicola ha una leva con il terminale ripiegabile e sfrutta una piccola rotella dentata posizionata in corrispondenza del margine destro della cornice del fotogramma, rotella in grado di rilevare il movimento del film e di far avanzare il contafotogrammi in modo totalmente automatico.

Il mirino a pozzetto è dotato di vetro smerigliato e di una lente di Fresnel al centro della quale è posizionato l’indicatore di corretta messa a fuoco ad immagine spezzata. Il complesso ne fa purtroppo un mirino molto buio con qualche difficoltà di messa a fuoco nonostante la luminosità dell’ottica di mira anch’essa di 2.8.
Il mirino non ha la correzione automatica del parallasse ma presenta sul vetro smerigliato le croci di riferimento del centro del fotogramma alle diverse distanze di messa a fuoco.

Anche in questo caso ho effettuato qualche scatto di prova.

Molto interessante invece la resa dell’Ennit 80 mm 2.8 della Rollop che anche in questo caso ho smontato e accuratamente pulito prima degli scatti. Le foto sono state fatte senza utilizzo del cavalletto, appoggiando semplicemente la fotocamera su un muretto senza togliere il fondello della custodia.

Tempi di esposizione così lunghi a fronte di una illuminazione così irregolare, possono mettere in evidenza aberrazioni dell’ottica o riflessi interni della fotocamera in questo caso totalmente assenti anche nella ripresa senza treno in movimento sotto riportata dove la luce diretta dei lampioni non è schermata.


Molto interessante anche l’assenza di distorsione che conferma la buona qualità di quest’ottica.
Purtroppo non è così agevole paragonare l’Ennit e il Tessar 2.8 delle Rolleiflex 2.8A della fine degli anni ’40 per il limitato numero di esemplari sui quali fu montato che ne fanno una versione non facilissima da reperire.
Quella versione del Tessar non passa comunque per una delle migliori realizzazioni Zeiss per le fotocamere a doppia lente di Braunschweig.
Max Terzi
maxterzi64@gmail.com.
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