Sulla storia di Hasselblad, intendo in particolare le vicende legate alla vita dell’azienda, si trovano molte più informazioni rispetto a quanto accade per altre grandi marchi che hanno operato nel settore dell’industria ottica fotografica in special modo in Europa.
Coloro che negli anni per passione o per professione si sono occupati di raccogliere notizie, elementi tecnici e quant’altro si riferisse al passato di grandi o piccole aziende, l’hanno prevalentemente fatto con un focus sulla produzione e più raramente sulla vita aziendale che quasi sempre è poi il principale elemento che condiziona le scelte produttive e commerciali di qualsiasi realtà produttiva.
Vi è da dire che in moltissimi casi la scomparsa nel tempo di molti marchi ne ha di fatto cancellato la memoria sia per la perdita del materiale, che quasi sempre viene disperso nel momento della chiusura della società, sia per la cronica abitudine di molte realtà di non catalogare sistematicamente il proprio presente e quindi di non avere una traccia organizzata e leggibile del proprio passato.
Pur avendo a disposizione il materiale storico, le risorse per poter compiere una sistematica riorganizzazione della documentazione sono spesso limitate e raramente chi se ne occupa, per iniziativa personale o per mandato di un terzo, riesce a trarne una fonte di sostentamento o come più spesso capita nemmeno un modo per coprire le spese.
Capita così che il tempo trascorso, poco o tanto che sia, cancelli la memoria ed ancori, a quei pochi elementi sopravvissuti, i temi sui quali sviluppare la storia.
Per evitare quindi di arrivare a conclusioni sbagliate od improbabili è sempre prudente fare uno sforzo per contestualizzare gli elementi raccolti, per incrociare date ed eventi così da comporre un quadro che regga non solo il profilo della storia aziendale ma anche quello dell’ambiente sociale ed industriale nel quale l’azienda era inserita.
Poi esiste l’arte dl romanzare, che ha bisogno sì di alcuni riferimenti per contestualizzare gli eventi ma ha l’obiettivo di narrare coinvolgendo ed emozionando il lettore.
Un esempio della difficoltà di interpretare i pochi elementi a disposizione, nella prospettiva storica nei quali sono collocabili, ricavandone una narrazione che valga la pena di essere ascoltata, è costituito dalle immagini che ritraggono Victor Hasseblad e Reinhold Heidecke a Råö in Svezia.

Queste immagini arrivano a noi per merito di una famosa pubblicazione, il libro di Evald Karlsten Io sono la fotocamera, uscita qualche anno dopo la morte di Hasselblad avvenuta nel 1978.
Pochissimo invece è stato scritto sulla storia di Franke e Heidecke, la cui celebrazione o meglio la cui autocelebrazione, sarebbe stata apertamente in antitesi con la cultura tedesca dell’epoca.
A questo si aggiunge che molte informazioni furono disperse dalle articolate vicende aziendali che caratterizzarono i vent’anni successivi alla morte di Reinhold Heidecke, avvenuta nel 1960, ed anche in questo caso chi ha scritto di Rollei, Claus Prochnow per primo, lo ha fatto ex post con un focus prevalente sulla produzione.
Per quanto conosca meglio i libri su Voigtländer, devo dire che in generale nelle opere di di Prochnow sono narrati, nelle pieghe delle descrizioni, anche interessanti ed inediti spunti dai quali è possibile trarre notizie sulla vita aziendale.
Torniamo agli scatti ripresi a Råö che ritraggono nel 1955 due uomini profondamente diversi per età, posizione sociale e cultura, in una circostanza singolare per contesto ed informalità.

Victor Hasselblad, di oltre vent’anni più giovane di Reinhold Heidecke, muoveva i primi passi nel mondo dell’industria fotografica e benché avesse all’attivo già molta esperienza nella costruzione di apparecchi, quella come imprenditore in una azienda che stava assumendo un sempre maggiore respiro internazionale, era agli inizi.
Al contrario Reinhold Heidecke si avvicinava al termine della propria esperienza imprenditoriale con una azienda all’apice del successo, un modello industriale affermato ed una fama consolidata a livello mondiale dei propri apparecchi.
Le fotocamere impugnate dai rispettivi protagonisti di queste immagini sono una Hasselblad 1000F, non una 500C come erroneamente riportato nella didascalia del libro, la cui produzione verrà dismessa di lì a poco, ed una Rolleiflex 3.5, probabilmente il modello MX EVS codice K4B uscita nel 1955, sostituita l’anno dopo dalla 3.5 con Planar dotata di esposimetro.
Il ciclo di vita dei due prodotti, la monoreflex e la biottica, erano in una fase profondamente diversa.
Normalmente un prodotto, nell’ambito del periodo nel quale viene commercializzato, non ha mai un andamento costante sia nell’interesse che il mercato ha per l’acquisto sia per la disponibilità degli acquirenti a sborsare una cifra che risulti congrua per il produttore.
Si parla quindi di ciclo di vita per identificare le fasi, variabili a seconda del contesto di mercato, che caratterizzano la nascita la durata e la fine di un prodotto.
Le fasi sono quattro, definibili da quattro principali momenti: l’introduzione nel mercato, la crescita, la maturità e il declino e non vi è prodotto, inserito in una logica commerciale, che possa sottrarsi a questa sorte.

Nel 1955 le biottiche affrontavano la fase della maturità dovendo reggere da un lato la concorrenza dei sistemi alternativi che si stavano affermando, soprattutto nel mercato delle fotocamere 35mm, dall’altro le imitazioni, soprattutto giapponesi, presentate nella prima metà degli anni ’50.
La monoreflex 6×6 di contro erano nella fase di introduzione sul mercato: quella di crescita l’avrebbero affrontata tempo dopo con l’arrivo dell’Hasselblad 500C.

La didascalia riportata nel libro di Karlsten, definisce quell’incontro, in maniera forse un po’ troppo romanzata, come il momento di un ipotetico gentlemen agreement tra Hasselblad e Heidecke, con il quale essi giurarono l’un l’altro di non farsi concorrenza in futuro.
Questa possibilità è, almeno dal mio punto di vista, quanto mai improbabile.
Alle Franke e Heidecke il progetto di una monoreflex 6×6 era già in cantiere prima della scomparsa di Heidecke mentre ad Hesselblad, sono convinto, non sia mai balenata l’idea di lanciare un modello di biottica.
Questi conosceva bene la portata innovativa del suo prodotto e per questa ragione non smise mai di coltivare le relazioni con gli altri produttori, con i fotografi professionisti e con gli operatori commerciali attraverso un’impegnativa attività che lo portava spesso in giro per il mondo con a fianco la moglie Erna.
Ed è solo in questa prospettiva che trova a mio parere spiegazione l’incontro a Råö.
Hasselblad era un attento osservatore di quanto gli accadeva attorno e questo lo aiutò a cogliere dettagli non banali sui quali si basarono alcune tra le più importanti scelte che determinarono il successo dell’azienda.
Uno di questi momenti è rappresentato dalla scelta, sofferta, di rinunciare all’otturatore a tendina verso l’adozione di quello centrale.
Se mai nel 1955 tra i due fosse stato stabilito un patto, ancorché tacito, affinché ciascuno conservasse ad libitum la filosofia costruttiva dei propri prodotti, Hesselblad fu di certo il primo a tradirlo.
Nel 1954 la presentazione della Supreme Wide introduce l’adozione dell’otturatore centrale che nel 1957 viene montato anche sulle ottiche Carl Zeiss intercambiabili dedicate alla 500C, compiendo così il passo decisivo per l’affermazione di un nuovo modo di concepire le monoreflex medio formato.

La 500C adottò inoltre l’80mm Planar 2.8 al pari di quanto sulle Rolleiflex era accaduto anni prima nel 1954 con il modello 2.8C, aprendo così un nuovo fronte di concorrenza alla biottica.
Al di là della parentesi degli Ektar, montati originariamente sula 1600F, dal 1952 Carl Zeiss produsse per Hasselblad l’80mm 2.8 Tessar, di certo migliore di quello montato sulla Rolleiflex 2.8A del 1950, ma comunque non all’altezza del Planar.

Questi eventi e quelli che ne seguiranno con le monoreflex 6×6 prodotte in Giappone spingeranno le biottiche di Braunschweig nella quarta fase del ciclo di questo prodotto: quella del declino.
Se vogliamo quindi la 500C sommò i vantaggi della visione reflex a quelli dell’otturatore centrale che di certo aveva ed ha una maggiore precisione, affidabilità e assenza di vibrazioni rispetto a quello a le tendine metalliche, aggiungendo inoltre il vantaggio della sincronizzazione flash su tutti i tempi di scatto.
Non è un caso che Zenza Bronica coltivò sino a metà anni ’70 la filosofia dell’otturatore a tendina sulle proprie monoreflex, salvo poi passare con l’uscita dell’ETR a quello centrale che utilizzò anche sulla serie SQ e 67. Un’analoga situazione è rappresentabile per Mamiya benché quest’ultima mantenne l’otturatore a tendina sui modelli di formato 6×4,5.
Rollei fece un percorso analogo prima con la SL66 e poi con la SLX e successivamente con la serie 6000.
Alla stessa conclusione, vista per i marchi sopra citati, Victor Hasselblad ci era però arrivato vent’anni prima unendo due filosofie costruttive.
Massimiliano Terzi
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Complimenti !!! Bell’articolo Max….
Grazie Gianni!