Lo sviluppo dei modelli reflex 35 mm che prende il via dalla seconda metà degli anni ’50, apre nuovi orizzonti nell’utilizzo di questo formato di pellicola i cui molteplici e, in alcuni ambiti, nuovi impieghi fecero a loro volta da sprone per le case costruttrici di apparecchi fotografici e ottiche nella ricerca di nuove ed ancor più versatili soluzioni.
Si avvia progressivamente un circolo virtuoso che vedrà ad esempio da un lato lo svilupparsi dai primi anni ’60 dei sistemi TTL di misurazione dell’esposizione nonché l’affermarsi di sistemi basati su un parco ottiche di crescente qualità.
Lavori in precedenza svolti con macchine medio e grande formato iniziano quindi a trovare in apparecchi e formati di pellicola di minori dimensioni, nuove opportunità anche grazie al progressivo perfezionamento del materiale sensibile soprattutto nelle emulsioni invertibili a colori.
Il grande formato non cede il passo ogni qual volta la situazione di ripresa richieda la versatilità di un apparecchio a corpi mobili fondamentale per poter agire sulla correzione della prospettiva o dei piani di fuoco.
In questo scenario, la storia che racconterò di seguito rappresenta un’eccezione.
Tra gli esempi di utilizzo del 35 mm, in un ambito non propriamente dedicato a questo, vi è infatti il lavoro di riproduzione di numerosi quadri di Picasso realizzato tra il 1960 ed il 1961 dal fotografo statunitense David Douglas Duncan presso la Californie, residenza del celebre pittore in Costa Azzurra.
Fin qui, scelta tecnica a parte, nulla di particolare se non per il fatto che Duncan era all’epoca un affermato fotografo di reportage, noto ad esempio per i servizi dal fronte bellico coreano che ebbe con Pablo Picasso numerose occasioni di incontro dalla seconda metà degli anni ’50 e sino alla scomparsa del pittore avvenuta nel 1973, frequentazioni che portarono alla produzione di interessanti e quanto mai esclusivi scatti.

Ancora oggi le immagini più suggestive che restituiscono uno spaccato della vita privata dell’artista, ritraggono il pittore in età senile e provengono dal lavoro svolto da Duncan dalla seconda metà degli anni ’50 con un Picasso ormai ultra settantenne.
Fu proprio durante questi incontri alla Californie che Duncan ebbe l’occasione di vedere in esclusiva numerose opere custodite in alcuni locali della villa, rimanendone tanto entusiasmato da proporre a Picasso di documentare la grande mole di materiale che, prima o poi, avrebbe subito la sorte di essere disperso tra collezionisti ed appassionati d’arte.
Da questo lavoro nasce alla fine del 1961 un libro intitolato, nella versione italiana edita da Garzanti, I Picasso di Picasso, pubblicato in occasione dell’ottantesimo compleanno del pittore.

Il libro costituisce un documento unico poiché, come facevo cenno sopra, oltre a raccogliere una serie di quadri destinati nel tempo ad essere venduti a differenti soggetti, riporta la narrazione dell’autore della tecnica utilizzata per gli scatti, con le motivazioni che lo spinsero a scegliere il formato di pellicola, il corredo nonché le modalità utilizzate per le riprese.
Si tratta di un lavoro complesso, imponente, approcciato con le difficoltà e l’entusiasmo di un grande fotografo quale era Duncan che in quel periodo fu tra l’altro impegnato in attività di reportage al confine sovietico.

Vediamo come egli stesso racconta l’approccio al lavoro attraverso quanto scritto nell’appendice del libro, lavoro che si sviluppa nell’arco di un anno e mezzo circa e viene terminato nel luglio del 1961.
In quei giorni il maestro era sommerso in una valanga di colori, tele, ceramiche, disegni giganteschi di picadores in inchiostro di china, insomma stava lavorando come un matto, ossia era Picasso. Altro tratto tipico del mio uomo: benché io immediatamente avessi raccolto tutta l’attrezzatura necessaria e mi fossi trasferito a Cannes, passarono sei mesi fino al giorno che improvvisamente me lo trovai davanti e mi sentii chiedere cosa aspettavo per mettermi a fotografare i suoi quadri. Di lì a dodici ore tra lui, Jacqueline e me avevamo sgomberato una stanza all’ultimo piano della Californie accanto al suo studio ed io vi avevo insediato tutto il mio armamentario ed ero pronto per lavorare.

Vi sono poi alcuni passaggi che spiegano la scelta del formato di pellicola, scelta che come affermato dallo stesso Duncan suscitò più di qualche perplessità nel suo ambiente.
A quel tempo nessuno, nemmeno Picasso, sapeva quanti quadri fossero raccolti nella sua villa. Ma io dopo averne visti alcune centinaia in una sola stanza ero arrivato alla conclusione di riprodurli tutti. Il mio progetto era stato accolto con estremo scetticismo da quelli, tra i miei amici, che fanno il mio mestiere: se volevo fare delle fotografie veramente buone, la mole dell’impresa non me la rendeva difficile ma impossibile. Rompendo con tutti i precedenti nel campo del libro d’arte — dove una lastra o pellicola di cm 12 x 15 è considerata una miniatura — avevo deciso di fotografare i Picasso di Picasso con una macchina 35 mm.
Il motivo di tale mia decisione stava nella quantità delle riproduzioni da fare. Alla Californie dovevano esserci più di cinquecento quadri. Ammesso che non spuntassero grosse difficoltà, prevedevo di dover scattare per ogni quadro almeno nove pose: tre con esposizione esatta, tre mezzo stop sotto e tre mezzo stop sopra. In tutto 4500 fotografie come minimo, se tutto andava bene e se non facevo dei pasticci. E facevo il mestiere da troppo tempo per aspettarmi che tutte le circostanze mi fossero favorevoli e illudermi di non prendere cantonate.
Alla fine del lavoro Duncan avrà scattato circa ottomila fotografie.

La narrazione prosegue con considerazioni che, nell’era del digitale e delle reti, appaiono surreali, potendo far viaggiare oggi in un istante un immagine tra fotografo ed editore anche se posti dalla parte opposta del globo.
Duncan prosegue quindi con le motivazioni della scelta del formato 35 mm.
Naturalmente dapprima avevo contato di lavorare con una macchina grande dati i vantaggi sul formato della diapositiva grande. Ma sorgeva una difficoltà insolubile: dove potevo trattare 4500 pellicole? Non c’è un impianto fotografico privato in Europa di sufficiente portata per una tale mole di lavoro. Man mano che fotografavo avrei dovuto spedire le pellicole da un piccolo centro della Costa Azzurra al più vicino centro attrezzato. Sarebbero passati giorni, settimane, tra quando scattavo una fotografia e quando esaminavo il risultato. Vale a dire, avrei passato la vita all’ultimo piano della villa di Picasso: magnifica prospettiva, ma poco pratica. Picasso aveva di meglio da fare che tenersi in casa per l’eternità un fotografo che ogni tanto gli faceva saltare tutte le valvole, come feci io più d una volta, riducendo il maestro al buio col pennello in mano.
Chi ha avuto il modo di sfogliare il libro sa quanto la riproduzione dei quadri in esso riportata sia accurata, tanto da rendere superflua qualsiasi spiegazione.
Mi colpisce molto il fatto che Duncan, uomo abituato a far parlare in prima battuta le proprie immagini e non il corredo o la tecnica con le quale le avesse ottenute, si senta in questa circostanza legittimato a raccontare il percorso ed i mezzi che lo portarono a realizzare questa opera unica e titanica quasi a sottolineare il contributo dato dal fotografo nella mera riproduzione di un quadro.
Un centinaio di quadri dovetti riportarli sul cavalletto quattro volte. La prima volta un difetto nell’emulsione me li tinse tutti di color oliva. La seconda volta dovetti buttar via tutto perché i grigi avevano una velatura azzurra (credevo dipendesse da un aumento del voltaggio della rete locale avvenuto senza che lo avvertissi, ma si trattava di un difetto sopravvenuto negli impianti del laboratorio che mi sviluppava le pellicole). La terza volta fu colpa di una mia distrazione: le mie linee d fede non collimavano coi bordi delle montature delle diapositive, e di nuovo dovetti fotografare tutti e cento i quadri. A dispetto di tutte le mie precauzioni (controllavo la distanza dal pavimento al centro della lente e al centro di ogni quadro e la distanza tra i quattro angoli del quadro e il centro della lente e per ogni posa controllavo il quadro, il cavalletto e la macchina con la livella a bolla), chissà come non c’erano mai due lince parallele, Il rimedio fu semplice quanto era futile la causa, avevo trascurato di compiere una verifica quanto mai banale: in fabbrica le pellicole erano state incollate male nelle montature di cartone, Una volta che le ebbi tolte dalle montature, le parallele delle fotografe diventarono esatte, ma quando finalmente scopri dove stava lo sbaglio, avevo rifotografato quei quadri per la quarta volta.

Poi arriva la spiegazione della tecnica di ripresa: mi chiedo cosa debba essere stato per un fotografo abituato all’azione, concentrare l’attenzione in modo così spasmodico su una lunga sequenza di scatti con caratteristiche simili.
Il tempo base di esposizione per ì quadri dì formato medio era di due secondi a f 6.3 con le luci ad un angolo approssimativo di 30° con la superficie della tela, a distanze tra m. 3,60 e 4,50 dal cavalletto. Per regolare l’esposizione usavo esposimetri Weston Master IV e un Honeywell Pentax Sportmeter.
Foglietti Kodak per il controllo dei colori, la scala dei grigi e contrassegni di catalogazione erano collocati agli angoli e sugli spigoli di ogni quadro, Ciascun quadro portava un cartello su cui era segnato un numero di identificazione, più le misure e la data di nascita del quadro. Un numero di identificazione era incollato anche sul telaio. Per semplificare la messa a punto approfittando dell’identità di misure tra una parte dei quadri, segnavo delle indicazioni sul pavimento dimodoché il tempo che perdevo a spostare di volta in volta il treppiede era molto diminuito. Non posso indicare un tempo medio preso da ogni quadro che fotografavo. Uno facile mi poteva prendere appena un quarto d’ora; ma per un «collage» coi suoi riflessi disperanti se volevo fare una riproduzione seria qualche volta mi occorreva parecchio più di un’ora.
Indubbiamente l’utilizzo di un apparecchio a corpo rigido, quale una reflex 35 mm, aveva ed ha nei lavori di riproduzione il forte limite di non poter posizionare la fotocamera lateralmente rispetto al soggetto decentrando poi l’ottica, tecnica questa spesso utile per attenuare o eliminare i riflessi.
Senza peraltro poter vedere l’immagine su un vetro smerigliato sufficientemente grande o comunque tale da meglio cogliere i possibili difetti.
Anche in questo caso mi colpisce il tema della grande capacità di concentrazione sul soggetto: migliaia di scatti dove anche il più piccolo dettaglio fuori posto poteva invalidare la singola ripresa. Senza possibilità di correggere agevolmente gli errori in post produzione come accadrebbe oggi.
Veniamo ora alla descrizione del corredo utilizzato.
La macchina era una Alpa Reflex 6c, munita di obiettivo apocromatico Kern Macro-Switar 50 mm F 1.8. I tecnici dalla Alpa mi avevano sostituito il normale mirino smerigliato con uno che mi ero fatto fare per questo lavoro, con un reticolo di mezzo millimetro di intervallo. Per i quadri molto grandi o molto piccoli avevo tre obiettivi supplementari: un 35 mm Curtagon f 2.8, un 75 mm Xenar f 3.5 e un 100 mm Kinoptik f 2. A questi tre obiettivi avevo fatto applicare un filtro Alpa 40 per adattarli alle caratteristiche di colore del Kern Macro-Switar che non ha filtro.
L’ALPA 6c fu il primo apparecchio ad adottare le soluzioni della Alpa moderne ovvero la rinuncia al secondo mirino con o senza telemetro, l’eliminazione dell’oculare a 45° del mirino reflex, l’introduzione dell’esposimetro e il comando dello specchio sincronizzato con l’otturatore, non più direttamente collegato al pulsante di scatto.

Sul modello 6c viene migliorata sensibilmente la qualità del mirino rispetto ai precedenti modelli 6 e 6b, caratteristica indispensabile per effettuare un lavoro di riproduzione di tale portata senza rimetterci la vista.

Duncan fa inoltre riferimento alla preparazione del corredo appositamente effettuata a Ballaigues con l’installazione di uno speciale vetrino di messa a fuoco con riferimenti millimetrici.

La 6c viene commercializzata a valere dal 1960 il che dimostra come Duncan ebbe in anteprima la fotocamera se si tiene conto dei tempi di allestimento del corredo.
Questo modello, che mi è recentemente capitato di acquistare, mantiene una bassissima standardizzazione delle componenti, fattore che fa di norma delle ALPA apparecchi complicati soprattutto nella manutenzione.
Maggiori dettagli sulle reflex ALPA sono contenuti nei due articoli a queste dedicati.


Un’altra particolare caratteristica di questo lavoro fu che tutta la filiera produttiva fu gestita tra Francia e Svizzera con pellicole Kodachrome prodotte nei due paesi e con fotolito e stampa gestiti a Losanna come racconta lo stesso Duncan in chiusura dell’appendice.
Quattro delle maggiori case di fotoincisione svizzere, due legatorie e tutte le stampatrici dell’Imprimerie Centrale di Losanna stanno lavorando a tutto vapore per completare in tempo la prima edizione (di cui solo gli esemplari destinati all’America riempiranno dodici vagoni merci). A questo punto mi pare confermato che le fotografie per I Picasso di Picasso dovevano essere fatte col 35 mm e in nessun altro formato se volevo giungere in tempo e, insieme, accontentare le esigenze che mi parvero implicite nelle parole del maestro quando diede il suo consenso al mio progetto: «Sì, soltanto a colori!»
Massimiliano Terzi
maxterzi64@gmail.com

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Articolo molto interessante, mi è rimasta solo un po’ di curiosità su un aspetto importante per questo genere di riprese: il tipo di illuminazione usato.
Visto che ogni tanto saltavano le “valvole” nella casa di Picasso e che Duncan temeva le variazioni di tensione immagino che questi non usasse flash, ma luce continua. Con lampade “survoltate”? (destinate nel giro di poche ore d’uso a modificare la temperatura colore) oppure, con le neonate alogene di fine anni ’50?
Chissà quante (e quali) lampadine per 4.500 foto!
Buon giorno e grazie!
Il tema dell’illuminazione è effettivamente molto interessante.
Duncan descrive così la tecnica usata:
“Per il momento dello scatto spegnevo tutte le luci di messa a fuoco e laterali. L’illuminazione era fornita da sei Photoflood numero 2 montati a batterie verticali dì tre luci ciascuno su treppiedi mobili, Mi ero fatto mandare dei riflettori speciali a cono profondo ma a luce piatta, due portalampade pesanti e un trasformatore da 3 kilowatt da Roma, dove l’attrezzatura dì questo genere è fabbricata per l’industria cinematografica.”
Facendo una piccola ricerca ho visto che i Photoflood numero 2 da 120 V avevano una potenza di 500 W, una temperatura di colore di 3.400°K e una vita media di 6 ore.
Il consumo di lampade e di energia deve quindi essere stato considerevole.
Complessivamente Duncan scattò circa 8.000 fotografie.
Grazie ancora.
Max
La ringrazio moltissimo per questi ulteriori e circostanziati dettagli.
Buona giornata
Massimo
Articolo molto interessante e documentato benissimo!
Complimenti
Alessandro Farella
Grazie molte Alessandro!
Max