Tra gli aspetti curiosi che animano spesso le discussioni tra gli appassionati Rolleiflex non solo italiani, c’è quello degli esemplari che riportano sul frontalino, sotto il numero di matricola, l’incisione Jt.

Queste fotocamere, per quanto ho avuto modo di constatare, abbracciano il periodo che va dalla seconda metà degli anni ’50 ai primi anni ’60 e sono una curiosità collezionistica che di fatto non si traduce in maggior indice di rarità o valore, anche in ragione del fatto che una vera spiegazione del significato di questa incisione non è mai stata fornita nemmeno dai testi ufficiali, lasciando quindi alle congetture degli entusiasti del marchio il trovare una spiegazione più o meno plausibile.

Su questo tema sono stato sempre un po’ scettico giacché le teorie più accreditate, che attribuiscono questo marchio alle Rolleiflex importate in Italia, non fanno il paio con quanto si trova sulla documentazione dell’importatore dell’epoca che era la ERCA di Milano.
Una costante nella storia della Biottica di Braunschweig, è certamente quella della diffusione internazionale degli apparecchi, ciò grazie all’intraprendenza e alle competenze di Paul Franke che aveva maturato una rilevante esperienza sui mercati internazionali in occasione delle precedenti attività svolte, attività che trovate descritte nella prima parte della serie di articoli sulla storia della Franke e Heidecke.
Le modalità della commercializzazione all’estero seguirono negli anni, non solo per la Franke e Heidecke, regole estremamente eterogenee nell’ambito delle quali le aziende che potevano permetterselo, creavano proprie emanazioni negli altri stati per mantenere una uniformità di immagine nella commercializzazione dei propri prodotti.
Ne sono un esempio le filiali statunitensi di Leitz e Voigtländer presenti già tra fine ‘800 e inizi ‘900 piuttosto che l’acquisizione di ANSCO da parte di AGFA negli anni ’20 che veicolò la propria produzione oltreoceano attraverso l’acquisizione di un’azienda locale.
Queste politiche potevano essere realizzate in mercati di una certa rilevanza, soprattutto se si disponeva di personale e competenze organizzative per gestire la propria presenza diretta in contesti diversi e spesso lontani dal paese di origine.
In assenza quindi di competenze o di convenienza economica, veniva delegato ad un importatore locale l’organizzazione delle vendite.
Sovente agli importatori non veniva affidata solo la commercializzazione ma anche il servizio post vendita che richiedeva la trasmissione di competenze dalla casa madre per addestrare, ad esempio, il personale addetto alle riparazioni.
Non era infrequente dunque che le filiali estere mantenessero il marchio aggiungendo il nome del paese nel quale operavano, piuttosto che gli importatori ottenessero negli accordi di commercializzazione di poter mettere il proprio logo sugli apparecchi, accanto a quello del produttore, come fu per Beseler nei confronti di Topcon, per Honeywell nei confronti di Pentax o di Bell e Howell nei confronti di Canon.

In alcuni di questi casi il nome dell’importatore arrivò addirittura a sostituire quello della casa madre.
Parlando di Rolleiflex ad esempio vi sono esemplari della biottica con la scritta Honeywell risalenti al periodo nel quale la casa statunitense siglò con Braunschweig un accordo di collaborazione.
Accanto ad uno o più importatori ufficiali poteva accadere che si sviluppassero importazioni parallele che tuttavia non godevano dei servizi di assistenza sul territorio forniti dalla rappresentanza o dall’importatore ufficiale.
L’importazione parallela, che era un fenomeno da sempre presente nell’ambito dei prodotti ottici e fotografici, prese maggior piede nel secondo dopoguerra anche in ragione del forte sviluppo del settore.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 la questione si complicò parecchio, soprattutto in ragione del sempre maggior volume di materiale proveniente dal Giappone i cui quantitativi previsti nell’ambito del GATT, accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio siglato nel 1947 da ventitre paesi a livello mondiale, non erano sufficienti a coprire la crescente domanda.
Se sfogliate i numeri di riviste italiane di fotografia dei primissimi anni ’60 vi capiterà di imbattervi in lettere inviate dai lettori alle redazioni nelle quali viene segnalato, in particolare mi è capitato di leggere per Nikon F, la scarsa disponibilità di fotocamere presso i rivenditori o la totale mancanza di accessori.
A questo proposito è molto interessante quanto scritto da Cesco Ciapanna per Progresso fotografico nel numero di maggio del 1961 che qui ripropongo in un passaggio dell’articolo: L’esclusivista italiano riesce ad ottenere dal Ministero la licenza di importazione per 100 cineprese X, in base all’accordo di clearing. Se la domanda di questi apparecchi è sul mercato superiore all’offerta, ciò non è certo sufficiente ad indurre il Ministero competente ad importare un numero maggiore di cineprese. X. Ecco che si presenta il momento buono per una di quelle piccole ditte marginali di import-export: si va in Svizzera, per esempio a Zurigo dal Signor Charles Braun (uno dei più grossi importatori europei) e la merce desiderata dopo pochi giorni è in Italia. Le ditte che fanno questo lavoro sono di natura strettamente commerciale, agiscono ai margini della legalità, e non offrono naturalmente nessuna garanzia per gli apparecchi che vendono, né alcun servizio di riparazione.
Si affermano quindi sistemi di marcatura del materiale ad opera degli importatori ufficiali che appongono piccole targhette recanti la loro ragione sociale e il loro marchio.
Diversamente da quanto spesso mi è capitato di leggere o sentire, la regolare importazione dei prodotti giapponesi non ha nulla a che vedere con i ben noti ovalini adesivi color oro con la scritta PASSED che è ancora possibile trovare su corpi macchina o ottiche importate dal Giappone dagli anni ’50 e sino a tutti gli anni ’80.

Il bollino color oro riporta di norma anche le sigle JCII acronimo di Japan Camera Industry Institute e JMDC di Japan Machinery Design Center.
Gli adesivi venivano applicati direttamente dal produttore per indicare il fatto che i relativi modelli fossero stati classificati come produzione originale e non semplice imitazione di analoghi prodotti occidentali come soprattutto negli anni ’50 era considerata, spesso anche a ragione, la produzione giapponese.
Ma torniamo all’epoca nella quale sono state prodotte le Rolleiflex marchiate Jt.
Al di là di casi articolati e sofferti come la rivendicazione del marchio Carl Zeiss e Zeiss Ikon da parte delle due aziende presenti nella DDR e BRD, la rete delle relazioni commerciali internazionali si ricompone spesso nel dopoguerra con modalità e protagonisti diversi anche in relazioni ai forti cambiamenti che caratterizzano la seconda metà degli anni ’40.
È il caso ad esempio della Franke e Heidecke che nel periodo prebellico fu importata in Italia dalla ditta Ippolito Cattaneo di Genova e che viene in quello post bellico rappresentata in Italia dalla ERCA di Milano.
La ERCA S.p.A. cine-foto-ottica, la cui ragione sociale si forma con le sillabe iniziali dei due nomi italianizzati di Hermann Flueler e Carl Henkel, viene fondata a Milano nel 1948 acquisendo via via la rappresentanza di aziende come Paillard Bolex, Rollei-Werke, Durst, Kern, Braun e Sawyer’s – Viewmaster.

Il socio più anziano, Hermann Flueler, svizzero di origine, nasce a Stans il 6 marzo 1884, arriva in Italia nel 1915 e dal 1922 assume la direzione della sede Italiana dell’Agfa che in poco più di diciassette anni sviluppa nel nostro paese ben sei filiali.
Carlo Henkel nasce il 14 dicembre 1904 e vanta una approfondita esperienza bancaria, borsistica e amministrativa maturata in Germania e in altri mercati internazionali.

Nel nostro paese, dopo un’esperienza come impiegato e successivamente direttore della filiale italiana di un’importante industria tedesca nel campo foto-cine, inizia nel 1947 la sua carriera di manager indipendente fondando in società con Hermann Flueler la ERCA.
L’azienda alla fine degli anni ’60 vanta un qualificato organico di 130 collaboratori.
Flueler lascerà nel 1964 la presidenza della ERCA, ad ottant’anni compiuti, cedendo la direzione negli anni successivi e fino al 1979 a Carlo Henkel.
Ai due fondatori e alla loro grande esperienza si deve lo sviluppo in Italia nel dopoguerra di marchi come Bolex e Rolleiflex, le cui caratteristiche e novità venivano veicolate attraverso il periodico Notiziario ERCA interessante pubblicazione tutt’ora fonte di notizie tecniche e dimostrazioni di utilizzo del materiale Rollei.




I numeri in mio possesso del Notiziario ERCA, che vanno dal 1955 al 1963, riportano numerose immagini delle Rolleiflex dell’epoca ma in nessun caso compare o viene citata nei testi la sigla Jt.
Occorre innanzitutto dire che la lettera J nell’alfabeto Fraktur corrisponde alla lettera I, tant’è che può capitare di vedere la ragione sociale della celebre azienda di Dresda scritta sia nel formato IHAGEE sia JHAGEE, in entrambi i casi fonetizzazione dell’acronimo IHG riferito al marchio Industrie und Handelsgesellschaft.
Il simbolo Jt altro quindi non è che la sigla IT.
Se poi osserviamo i manuali di istruzioni e brochure Rolleiflex in lingua italiana, troviamo fino alla prima metà degli anni ’60 la sigla J accanto ai riferimenti dell’edizione.

La probabile necessità sviluppatasi negli anni successivi di siglare la manualistica in Giapponese, semai sia stata prodotta, deve aver spinto la casa di Braunschweig a marchiare i manuali e le brochure con la lettera I.
A questo punto le informazioni in mio possesso potrebbero chiudersi qui se non mi fossi recentemente imbattuto in un’esemplare di Rolleiflex 3.5E Planar marchiata per l’appunto Jt, completo di scatola, borsa in cuoio, brochure e istruzioni.

Trovare un esemplare integro e completo è sempre una felice scoperta perché attraverso l’esame delle singole componenti è quasi sempre possibile trarre interessanti elementi.
Purtroppo, come nel caso dei tombaroli, ci sono commercianti o privati che hanno spesso fatto scempio di questo patrimonio di informazioni, smembrando corredi o singoli pezzi con la mira di ottenere un maggiore guadagno di vendita come peraltro spesso poi accade.
Questo comportamento, che ha una ferrea logica di guadagno, è del mio punto di vista assolutamente censurabile perché sottrare preziose informazioni agli appassionati che le vogliono cogliere.
La 3.5E della quale facevo cenno sopra, ha avuto uno sorte più fortunata, o forse l’ho avuta io trovandola, sta di fatto che osservando ad esempio con attenzione il timbro sbiadito presente sulla copertina della brochure degli accessori è possibile rilevare la scritta Photo Planet Stuttgart, Hindenburgbau, rivenditore di materiale fotografico tutt’ora attivo e presente di fronte alla stazione ferroviaria della città tedesca.

L’aspetto che mi ha particolarmente incuriosito, è che la manualistica, in lingua italiana, reca il timbro di un rivenditore tedesco.
Un negozio tedesco, che utilità poteva avere nel vendere materiale con manuale e brochure in italiano se non quello di collocarlo in Italia?

È quindi più che probabile che queste fotocamere esportate dalla Germania attraverso grandi rivenditori, al difuori degli accordi ufficiali di Importazione con ERCA, dovessero essere marchiati perché fossero riconoscibili una volta giunti nel paese di destinazione e non godessero ad esempio dell’assistenza diretta in garanzia fornita dall’importatore ufficiale.
Del resto ERCA non marchiava gli apparecchi importati direttamente ed aveva in questo modo la possibilità di riconoscere e far riconoscere alla propria rete gli apparecchi di importazione parallela.

Il che fa comprendere come il fenomeno di importazione parallela in Italia non fosse del tutto irrilevante e che l’importatore italiano avesse cercato di tutelarsi a differenza di ciò che accadeva in altri paesi europei poiché non risulterebbe esistano biottiche marchiate Fr o Es.
Ho provato a scrivere a Photo Planet per chiedere loro se dispongono di qualche informazione in più.
Quando faccio queste cose mi sento un po’ come Verdone nella famosa scena della telefonata all’ACI, terminata con l’epiteto in romagnolo del quale spero di non sentire, ora, la versione in tedesco.
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Successivamente alla pubblicazione dell’articolo, ho avuto modo di esaminare grazie al contributo di due lettori le loro Rolleiflex 3.5F marchiate Jt e databili tra il 1961 e 1962 sulla base dei certificati di garanzia degli apparecchi importati all’epoca proprio dalla ERCA.

Questo conferma la mancanza di una precisa origine di questa incisione, benché tra la 3,5E descritta nell’articolo e questi due modelli di 3,5F siano trascorsi 5/6 anni e ben cinquecentomila numeri di matricola che fanno supporre un passo produttivo di circa centomila fotocamere all’anno, ovvero una dimensione di ben quattro volte superiore alla produzione annua Hasselblad a regime.
Il successo delle biottiche, che sappiamo poi sfumare nel corso degli anni ’60, potrebbe aver spinto la ERCA ad approvvigionarsi anche di esemplari di importatori paralleli.
Ma questa è solo una congettura.
Un grazie a Luca e a Marcelo per la segnalazione dei loro modelli Rolleiflex.
Max Terzi
maxterzi64@gmail.com

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Un mito la Rolleiflex, bellissimo articolo, complimenti!
Grazie Gennaro!
Max
Grazie. Molto molto interessante.Un caro saluto a tutti. Max, Rimini,
Grazie!
Max
Interessante articolo come sempre del resto
Grazie!
Max
Sono stato un modesto fotografo di cerimonie, usavo una Kowa super 66 con 3 ottiche e due dorsi, il laboratorio che mi stampava le foto non credeva ai suoi occhi, non aveva nulla da invidiare alle Hasselblad molto più costose, tuttora è funzionante ma dati i costi delle pellicole per uso amatoriale, non è neanche pensabile usarla.