La forte ripresa di interesse attorno al tema della fotografia analogica sta risvegliando questioni di tecnica ampiamente sopite dall’arrivo del digitale.
Tra queste vi sono sicuramente quelle riferite al calcolo dell’esposizione, probabilmente già non più così necessarie con gli apparecchi analogici di ultima generazione e divenute poi, almeno all’apparenza, inutili con l’avvento del digitale.
Il bracketing a “costo zero” consentito dal digitale, ha di fatto soppiantato qualsiasi ragionamento sulla congruità del calcolo dell’esposizione prima dello scatto, per non parlare poi delle funzioni HDR o altre simili diavolerie che hanno consentito di riprodurre una tale gamma di luminanze da semplificare un processo in precedenza complesso e non proprio alla portata di chiunque, non fosse altro per il livello di attrezzatura necessaria.
E non ho fatto ancora cenno alla post produzione: quando mia nipote qualche anno fa si recò in uno dei famosi store della mela per acquistare un computer si sentì dire dal ragazzotto che le illustrava le caratteristiche del sistema “io posso stare anche una intera notte su un pixel”.
Non ho mai voluto approfondire quali angherie avesse subito il povero pixel in quella nottata infinità e devo francamente dire che nessun pixel meriterebbe mai di patire così tanto.
Torniamo però alle nostre tecniche scomparse.
Dicevo che il ritorno all’analogico ha fatto sì che, prima poi, chi vi si applichi con una certa costanza, inizi a porsi il problema dei cieli bianchi, dei dettagli in ombra scomparsi ed altre questioni che di sovente trasformano una bella esperienza iniziata con tanto entusiasmo in un abbandono precoce della pellicola.
Ai malcapitati che, in qualche forum o gruppo social, provino a porre domande sul corretto metodo di calcolo dell’esposizione può succedere di fare una fine analoga a quella del povero pixel citato prima.
E tra le peggiori angherie che un fotografo analogico in erba può subire, c’è sicuramente quella del pistolotto sul sistema zonale che, i più habitué, definiscono confidenzialmente “SZ”.
Il che mi ricorda mia figlia che da piccola, colpita dai film nei quali Sean Connery interpretava il famoso Agente Segreto al servizio di Sua Maestà, lo chiamava confidenzialmente “James”.
Dopo aver letto alcuni post sul “SZ” sono arrivato alla conclusione che esiste oggi nel mondo degli appassionati un buon numero di persone che parlano con cognizione di causa di tecniche e materiali, un elevato numero di soggetti, soprattutto giovani, che si avvicina al mondo della pellicola con l’intento di capire e provare a cimentarsi ed infine un ridotto, fortunatamente, numero di personaggi che non ha capito ma parla o, peggio, scrive.
Ho quindi deciso anch’io di scrivere queste righe per gli entusiasti non esperti appartenenti alla seconda categoria.
Quelli che “la sanno” troveranno noti i concetti di seguito esposti, quelli che pensano di saperla non facciano la fatica di scorrere il resto della pagina.
Veniamo al dunque.
Nella panoramica dei grandi fotografi del ‘900 ne spicca uno in particolare, probabilmente non l’unico, che seppe coniugare tecnica di scatto, sviluppo e stampa sino a diventare un punto di riferimento per produttori di attrezzature e materiale fotografico, per il rigore, l’accuratezza e, per certi versi, l’originalità con la quale aveva dato corpo al il suo sistema.
Questo fotografo, come i più sapranno, è Ansel Andams e tra i produttori con i quali egli collaborò c’è senza dubbio al primo posto Victor Hasselblad.
Adams, che potrei chiamare confidenzialmente Ansel :-), nasce a San Francisco nel 1902 e si ritrova giovanissimo a documentare con una Kodak Box Brownie il parco dello Yosemite rimanendo affascinato da quei paesaggi.
Se vi capita, vi consiglio di leggere la sua autobiografia edita da Zanichelli. Un altro suggerimento è quello di visitare il sito della Ansel Adams Gallery che trovate a questo link.
La vita di Adams e la sua esperienza come fotografo furono improntate alla ricerca dell’eccellenza che ha consentito di far arrivare sino a noi immagini memorabili.
Nella sua autobiografia c’è un passaggio che mi ha sempre colpito “Una fotografia non è una semplice affermazione come alcuni credono. Rappresenta qualcosa che ognuno di noi ha visto – più da persona che come fotografo – e vuole tenere come ricordo di un momento particolare”.
Quando Adams mosse i primi passi, siamo tra il 1917 e il 1920, capi ben presto che negativo, stampa e fotocamera costituivano un unicum indissolubile nel quale uno di questi tre aspetti, preso singolarmente, perdeva di significato e di efficacia rispetto al risultato complessivo.
Il terzo suggerimento che mi sento quindi di dare è quello di leggere almeno due dei tre libri scritti da Adams che sono Il negativo e La stampa, sempre editi da Zanichelli.
La tecnica di questo fotografo californiano scontava da un lato la tipologia del materiale sensibile dell’epoca e dall’altro la necessità di riprodurre i soggetti con rigore rispetto a luci ed ombre che rischiavano di non essere rese con un effetto scenico e una fedeltà adeguati.
Iniziò quindi a fissare un punto tanto banale quanto fondamentale ancora oggi, almeno nella fotografia analogica: una buona stampa si ottiene da un buon negativo.
Del resto, altrettanto noto è il fatto che nella fotografia digitale per avere una buona immagine, a prescindere che la si stampi o meno, è possibile anche partire da uno scatto RAW di mediocre qualità e poi lavorarci sopra.
Sto ovviamente parlando di esposizione è non di inquadratura, sfuocato ed altre questioni riguardo alle quali anche il digitale deve chinare il capo.
Dicevo quindi che la necessità di ottenere un buon negativo di partenza spinse Adams a fare alcuni ragionamenti non certo sconosciuti agli altri fotografi, ma di certo messi in una corretta prospettiva solo da lui.
Quando ci accingiamo a scattare un’immagine, se non siamo in forti condizioni di controluce, tutti i dettagli ci appaiono ad occhio visibili, ma può accadere che nel negativo questi non vengano adeguatamente registrati.
L’inconveniente è presto individuabile nel fatto che l’occhio umano coglie un maggior numero di luminanze rispetto alla pellicola.
Ma cosa sono le luminanze?
L’avvento negli anni ’30 dei primi sistemi di misurazione della luce con elementi fotosensibili trovò immediata applicazione in fotografia soppiantando regoli o apparecchi di misurazione cosiddetti “ad estinzione” che basavano il loro principio di funzionamento sulla quantità di luce che riusciva ad attraversare un vetrino con differenti livelli di trasparenza ai quali corrispondevano differenti valori di esposizione.
Ansel Adams, quando ebbe modo di compiere i primi esperimenti utilizzando un esposimetro per luce riflessa, il famoso Weston Master, rifletté sul fatto che l’impiego di questo strumento fosse limitato se applicato alla luce che colpisce l’intero soggetto, senza considerare le singole luminanze che contribuiscono alla formazione dell’immagine.
I primi esposimetri commercializzati negli USA, non fornivano i valori in EV o in tempi/diaframmi, ma in intensità di luce misurata in “candle for square foot” o “foot candle”, indicatore concettualmente simile al LUX al quale siamo più abituati.
Fu solo successivamente che, per agevolare una rapida presa dell’esposizione gli esposimetri montarono regoli di conversione dei valori in EV e in tempi e diaframmi, come siamo abituati a vederli oggi.
La questione delle candele fa però capire in maniera più intuitiva quanto sia banale ma importante il tema delle differenti luminanze ovvero delle differenti quantità di luce che le parti del soggetto riflettono.
Le luminanze di un soggetto, secondo la teoria di questo fotografo, possono esser classificate in dieci tipologie che vanno dal bianco al nero con in mezzo otto intensità di grigio.
Normalmente, una pellicola di sensibilità standard, poniamo 100 ASA, con un trattamento di sviluppo standard, può non arrivare a registrare per intero queste dieci tonalità e il numero di tonalità effettivamente registrate può diminuire proporzionalmente in base alla criticità delle condizioni di luce durante la ripresa, al contrasto del soggetto o, in ultima analisi, all’esposizione non corretta.
Come fare quindi perché nel risultato finale ne appaiano il maggior numero possibile?
Spesso alcune, come dicevo, si perdono a causa di una cattiva lettura esposimetrica che, occorre ricordare, è di norma condizionata dall’angolo di lettura dell’esposimetro e dal fatto che questo sia tarato per riprodurre, ciò che legge, come grigio medio.
Grigio che Adams posiziona convenzionalmente nella zona V, concetto questo che affronteremo tra qualche riga.
Il riferimento per il grigio medio è il cartoncino Kodak che suggerisco sempre di portare con sé come riscontro. Se usate una fotocamera digitale sarà anche uno strumento indispensabile per la taratura del bianco.
Ecco quindi che su tutti i manuali d’uso delle fotocamere con esposimetro TTL troviamo ad esempio la nota che se punteremo l’obiettivo verso un soggetto in prevalenza nero la fotocamera tenderà a sovraesporre mentre, di contro, se la punteremo verso un soggetto chiaro, questa tenderà a sottoesporre.
Qui sotto un esempio tratto dal libretto di istruzioni di una Nikon F2AS nel quale è contenuto il suggerimento di riquadrare per correggere l’errore di lettura dell’esposimetro.
Il punto quindi sul quale calcoliamo l’esposizione ha un valore fondamentale soprattutto, lo ripeto, quando il soggetto è in una particolare situazione di illuminazione.
Le dieci luminanze dunque possono essere individuate nel soggetto attraverso l’attribuzione di altrettante zone corrispondenti alle gradazioni di grigio: occorre quindi abituare l’occhio a riconoscere le zone del soggetto da fotografare poiché questo è alla base di un buon risultato.
Laddove è possibile utilizzarlo, ponendolo vicino al soggetto che stiamo riprendendo, il cartoncino grigio medio Kodak ci può essere di grande aiuto.
Poiché parliamo di zone del soggetto, il sistema ideato da Ansel Adams prese il nome di sistema zonale.
Attenzione però: il sistema zonale non esaurisce con l’esposizione il suo effetto: esso infatti è indissolubilmente costituito da due parti: la prima, sopra descritta, che va sotto il nome di lettura esposimetrica selettiva e la seconda che mette in campo alcune tecniche, che servono ad aumentare la gamma di luminanze registrate dal negativo.
Queste tecniche sono in sintesi:
– combinazione di sovraesposizione e sottosviluppo
– la pre-esposizione del negativo
– l’utilizzo di filtri
– gli accorgimenti in fase di stampa
La prima tecnica, che Adams definiva “esporre per le ombre e sviluppare per le luci” così come la pre-esposizione devono essere tarate scatto per scatto e si applicano quasi esclusivamente alle fotografie realizzate con l’utilizzo di pellicole piane che possono quindi essere sviluppate singolarmente con specifici trattamenti.
Il che fa capire, di contro, che usare pellicole in rullo consente di utilizzare solo una parte del sistema zonale: quella relativa all’esposizione selettiva, che di per sé costituisce già un bel passo avanti rispetto all’esporre affidandosi esclusivamente alla lettura media dell’esposimetro.
Chi parla quindi di sistema zonale riferendolo alla sola esposizione selettiva, di fatto utilizza una piccola parte della tecnica di questo metodo.
Così come del resto, chi crede che la lettura esposimetrica selettiva sia quella che fa misurare il punto più luminoso e quello meno luminoso del soggetto e poi fa la media, non ha pienamente colto la tecnica.
Questa è un’operazione che fanno già tutti i più comuni esposimetri.
Per il livello di complessità fin qui descritto, si comprende spero bene, che il sistema zonale sia di fatto meglio applicabile ad una fotografia riflessiva nella quale si abbia tempo per calcolare con accuratezza l’esposizione, si abbia possibilità di fare scatti su pellicole piane, il che di norma rende necessario l’impiego di fotocamere di medio o grande formato, e si applichi una accurata taratura almeno dello sviluppo.
Meglio quindi che la pellicola venga sviluppata e stampata in proprio o portata ad un laboratorio che possa applicare uno sviluppo non standard secondo le indicazioni che verranno fornite ed una stampa secondo indicazioni di chi ha effettuato lo scatto.
Non vi è quindi da meravigliarsi se sul sistema zonale vengono organizzati corsi articolati: già l’uso di un apparecchio di medio o grande formato e le tecniche di sviluppo occupano, dopo il tema dell’esposizione, un cospicuo capitolo che non può certo essere affrontato in questa sede.
È qui invece possibile fare cenno ad alcuni accorgimenti sulla misurazione selettiva dell’esposizione o sull’utilizzo dei filtri, applicabili a qualsiasi apparecchio fotografico, che possano far evitare i più comuni errori.
Chiaro è che potendo giocare solo con la tecnica dell’esposizione dobbiamo essere consapevoli che il risultato sarà condizionato, nelle più critiche situazioni, dal limitato numero di luminanze che una pellicola è in grado di riprodurre rispetto a quelle del soggetto reale.
Scartiamo quindi subito le situazioni di luce ideale: sole pieno soggetto ben illuminato, contrasti ben distribuiti.
Nella foto mostrata sopra, l’esposizione è stata effettuata ad occhio con la regola del 16.
L’immagine è stata scattata a Punta Rocca, sulla Marmolada a 3.200 mt con una Hasselblad 500C corredata da un Planar 80 e un filtro arancio. Le condizioni d luce erano ideali e tali da non rendere necessaria una particolare presa dell’esposizione.
La regola del 16 si applica bene in condizioni di luce piena, con il soggetto ben illuminato e si calcola impostando il tempo pari alla sensibilità della pellicola, in questo caso 1/125 con Ilford FP4, e diaframma 16 compensato a 8 per via del filtro arancione.
Ma cosa sarebbe accaduto se il cielo fosse stato interamente riempito di nuvole bianche?
Risultato: cielo bianco con qualche dettaglio e montagne nere senza dettagli, oppure montagne con dettagli e cielo lattiginoso. Una terza ipotesi: una foto poco contrastata, grigia e molto piatta.
Considerato che la linea cielo/montagne è abbastanza regolare, presa l’esposizione sul grigio medio della roccia, da individuare con attenzione e da rilevare con un esposimetro spot, si può utilizzare un filtro Cokin grigio degradante, con la parte grigia sul cielo, in modo da ottenere un risultato più equilibrato, mantenendo un buon contrasto.
In condizioni di cielo interamente nuvoloso il filtro arancione sarebbe invece stato inutile.
Sono stati citati due strumenti aiuta-fotografo nella misurazione selettiva dell’esposizione: l’esposimetro spot che consente di misurare l’esposizione su piccole porzioni del soggetto e i filtri che possono essere colorati o di contrasto per il bianconero o grigi digradanti per il colore.
Occorre tuttavia fare attenzione quando si usano i filtri colorati per il bianconero: il filtro arancione ad esempio, scurisce i blu aumentando il contrasto tra cielo e nuvole ma schiarisce i rossi e gli arancioni rendendo ad esempio questa bella Lancia Fulvia Sport Zagato da rosso fiammante a grigio chiaro, ma soprattutto non rendendo più visibile la scritta rossa “Pirelli” sull’adesivo che appare così completamente bianco. (Leica R8 con 50 mm Summicron, filtro arancio e Rollei Superpan 200)
Nello scatto sotto riportato, effettuato alle Cinqueterre con una Leicaflex SL2, con 50 Summicron, filtro arancione e Rollei Superpan 200, la presa del grigio medio effettuata sulla facciata di una delle case ha consentito di saturare molto il cielo. Il filtro arancione che, come dicevamo, scurisce i blu ha accentuato l’effetto.
In questo caso l’esposimetro della fotocamera forniva una lettura media di almeno due diaframmi in più che non avrebbe consentito di ottenere il risultato voluto.
Un ultimo accenno alle situazioni estreme come questa: sempre Leicaflex SL2 con 50 Summicron, sempre filtro arancio esposizione presa sul mare. Purtroppo, in questo caso la differenza di luminanze tra interno ed esterno era tale da non consentire una leggibilità dei dettagli del muro attorno alla finestra, recuperabili, vista la geometria regolare, attraverso una mascheratura in fase di stampa.
Spero con questi esempi di aver stimolato la curiosità: documentatevi, provate e riprovate, acquisirete dimestichezza con la tecnica dell’esposizione selettiva e imparerete, anche in situazioni nelle quali non c’è modo di ragionare freddamente con misurazioni e calcoli, a compensare i valori di esposizione.
Prendete sempre nota dei valori di esposizione e dei fattori di correzione, per poi confrontarli con i risultati ottenuti e poter concretamente ragionare sugli errori: otterrete così risultati che mai avreste pensato di realizzare.
Ma soprattutto saprete perché li avrete ottenuti.
Massimiliano Terzi.
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E’ difficile trattare in maniera esauriente il Sistema Zonale in un singolo articolo ma spiace che anche in questo caso si è caduti nel luogo comune che sia praticamente “obbligatorio” l’uso del grande formato per poter praticare appieno il Sistema Zonale, lasciando quasi sottointendere che sia pratica inutile per il fotografo “comune” che scatta con pellicola a rullo, cosa sostanzialmente non vera. Il Sistema Zonale è applicabile anche senza variare lo sviluppo del negativo e il suo uso permette di fare sicuramente un uso più consapevole della tecnica fotografica applicata sul campo.
Non è corretta inoltre l’affermazione che la pellicola non sia in grado di regstrare più di 10 zone; le attuali pellicole in bianco e nero registrano dettagli anche oltre i 15 stop (15 Zone) senza variazioni di sviluppo, quelle cromogeniche e le negative colore riescono a spingersi anche più su.
Grazie comunque dell’articolo.
Ciao Diego e grazie per i tuoi spunti che condivido. Già il titolo dell’articolo, chiaramente ironico, voleva introdurre, sdrammatizzandolo, lo spirito di semplificazione tanto necessario sopratutto a chi con entusiasmo si accosta all’utilizzo della pellicola e di sovente cade in tecnicismi e complicate formule che altro non fanno che scoraggiarlo. Sono assolutamente d’accordo con te che i materiali disponibili oggi possono consentire il raggiungimento di livelli impensabili rispetto a quando, per assurdo, l’analogico era ancora diffuso. L’utilizzo tuttavia richiede tecniche e quindi conoscenze non propriamente accessibili. Potremo mai fare proseliti nell’utilizzo della pellicola con istruzioni da migliaia di pagine? Grazie ancora!
Ottimo articolo, ben fatto.
“”Potremo mai fare proseliti nell’utilizzo della pellicola …. “”
No, non potremo farli … e i sedicenti guru da forum, a cui l’autore faceva riferimento nell’articolo, non lo capiscono.
Grazie Luigi,
occorre insistere nella divulgazione dei principi base.
Bisognerebbe riflettere sul fatto che la Lomografia vive ben meglio del sistema zonale e di tutte le complicate teorie che si estingueranno con chi le sostiene.
Se l’utilizzo della pellicola è sopravvissuto è principalmente grazie a pellicole scadute e apparecchi improbabili non certo per i convinti sostenitori della supercazzola.
Max
Articolo davvero interessante e di agevole comprensione anche per un non esperto come me, grazie. Tra l’altro, di Adams conoscevo i libri di tecnica, non l’autobiografia, che pur essendo costosa, prima o poi troverò usata. Vittorio – ps.: che bella quella Robot Royal con i suoi filtri. Speriamo qualche intenditore del marchio faccia un articolo sulle Robot (se già non è stato fatto e non l’ho trovato…)
Grazie Vittorio per le tue parole di apprezzamento.
Prendo nota della tua richiesta di veder pubblicato un articolo su Robot e la giro alla redazione di SENSEI in modo che se ne possa tenere conto nella pianificazione dei prossimi articoli sulla storia dei marchi.
Anch’io trovo che la Royal, soprattutto la 36, sia una fotocamera splendida. Quella che vedi in foto è un esemplare che posseggo da qualche tempo e che ogni tanto uso con grande soddisfazione.