Preparando la serata NOC sulle fotocamere sovietiche, ho dovuto rimuovere, almeno in parte, il mio forte pregiudizio sulla produzione d’oltre cortina.
Ho in prima battuta realizzato di conoscere la materia molto meno di quanto pensassi e di dover ammettere l’esistenza di un mondo che solo in parte avevo avuto modo di esplorare e approfondire.
Il pregiudizio sulla scarsa qualità dei materiali, sulle approssimative tecniche di progettazione e realizzazione, per quanto per alcuni modelli sia assolutamente fondato, non può e non deve trovare una facile e quanto mai ingiusta estensione a tutta la produzione delle fotocamere sovietiche.
La vastità della gamma di marche e modelli realizzati in U.R.S.S. è infatti tale da rendere necessari alcuni distinguo.
Iniziamo con il dire che il modello industriale sovietico, del quale l’industria fotografica ne ricalca caratteristiche e peculiarità, si sviluppa dall’inizio degli anni ’20 del novecento e nasce in un modo molto diverso da quello sviluppatosi nel mondo occidentale.
Per quanto riguarda in particolare l’industria fotografica nazionale, nella Russia pre-rivoluzionaria pressoché tutte le macchine fotografiche, pellicole, e accessori venivano importati non esistendo all’epoca nessun produttore interno salvo qualche eccezione.
Sappiamo infatti che LOMO, nome che assunse negli anni ’60, fu fondata nel 1914 ed ebbe negli anni diverse denominazioni quali ad esempio GOZ e GOMZ.
L’industria delle macchine fotografiche sovietiche emerse quindi solo tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30, in un periodo di esperimenti e di sconvolgimenti sociali generali che seguirono la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 e la conseguente guerra civile.
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche venne ufficialmente creata nel 1922 due anni prima della morte di Lenin e dell’ascesa al potere di Stalin.
Le prime macchine fotografiche sovietiche furono dunque realizzate durante la spinta di Stalin per la trasformazione industriale ed economica del paese, con l’obiettivo di sviluppare un prodotto nazionale che sopperisse al blocco dell’importazione di materiale fotografico da paesi esteri ed in particolare dalla Germania.
Come è ben noto, il modello sovietico sviluppatosi dagli anni ’20, non era basato su un’economia di mercato, nell’ambito della quale la spinta all’innovazione è spesso indotta dalla necessità che gli operatori hanno di rimanere in una posizione concorrenziale.
Questo spiega, almeno in parte, come le diverse logiche adottate dal regime sino almeno agli anni ’60, determinarono la produzione in grandi quantità di beni, spesso di qualità scadente, realizzati sulla base di modelli produttivi obsoleti, beni che di sovente non varcarono mai nemmeno le soglie dei magazzini dove erano stati stipati dopo la produzione.
Questo modello economico chiuso venne, dalla fine degli anni ’20, perpetuato per mezzo di piani di produzione pluriennali che dopo la seconda guerra mondiale e successivamente alla morte di Stalin, avvenuta nel 1953, dovettero fare i conti con una situazione economica mondiale profondamente trasformata dagli esiti del conflitto.
Inizia quindi a partire dagli anni ’60 una lenta ma inesorabile apertura che porta nel 1991 allo scioglimento dell’U.R.S.S.
Di pari passo anche l’industria fotografica sovietica si trova coinvolta nella logica di esportazione dei propri prodotti.
Le transazioni con l’estero avvennero per molti anni con la formula dello scambio di merce su merce e fu proprio con questo sistema che anche in Italia iniziò, dalla seconda metà degli anni ’60, la commercializzazione di materiale fotografico sovietico ad opera di un produttore brianzolo di macchine da scrivere.
La Foto Ottica Sovietica, alla quale corrispondeva la ditta ANTARES di Calò, produttore appunto di macchine da scrivere, fu dunque per anni importatore e commercializzatore di materiale fotografico sovietico nel nostro paese.
Nasce di conseguenza oltre cortina, la necessità di sviluppare prodotti differenziati e dedicati a paesi esteri: in questa logica si sviluppano interessanti fotocamere e tra queste quelle a marchio ZORKI.
ZORKI è uno dei marchi più noti nel settore delle fotocamere sovietiche e rappresenta il secondo tentativo di produrre copie Leica per il mercato di massa.
Durante la seconda guerra mondiale, la fabbrica ucraina di Kharkov che produceva le FED fu evacuata per sfuggire all’avanzata delle truppe tedesche. Dopo la fine della guerra, la FED ebbe problemi a riprendere la produzione delle copie Leica realizzate prima della chiusura dello stabilimento.
Nei pressi di Mosca era attiva la Krasnogorsk Mekanicheski Zavod o KMZ i cui impianti erano sfuggiti ai danni prodotti dal conflitto. Presso la KMZ riprese quindi la produzione delle fotocamere FED con un logo FED-ZORKI congiunto.
Quando la FED di Kharkov tornò in funzione, KMZ continuò a produrre fotocamere con il marchio ZORKI con alcune modifiche al design. Nel frattempo a Krasnogorsk venne trasferita l’industria ottica proveniente da Jena a seguito del tentativo sovietico avvenuto dal 1947 di trasferire quanto rimaneva della Carl Zeiss nella Germania orientale occupata.
A Krasnogorsk si produssero dunque le più belle e affascinanti copie sovietiche degli schemi ottici Biogon Sonnar e Tessar che equipaggiarono le fotocamere con passo a vite 39×1 e le copie Contax prodotte a Kiev.
Venne quindi deciso di dedicare il marchio FED e le relative fotocamere al mercato interno, destinando il marchio ZORKI all’esportazione. Questo spiega la scarsa evoluzione delle fotocamere FED rispetto alle cugine prodotte dalla KMZ, rappresentando analogamente la ragione per la quale i modelli ZORKI 3 e 4, sono tecnicamente più avanzati.
Tra le fotocamere sovietiche ancora oggi utilizzabili con soddisfazione, le ZORKI rappresentano a mio avviso una interessante soluzione. Il mirino di dimensioni generose dei modelli 3 e 4, la correzione diottrica e il parco di ottiche di assoluto rilievo ne fanno una alternativa interessante ai più blasonati corredi a telemetro.
Ho avuto recentemente modo di testare la 4K che è stata l’ultima versione prodotta sino alla fine degli anni ’70 e rappresenta anche il modello più evoluto.
L’acquisto di questa fotocamera nasconde alcune insidie legate alla particolarità delle scelte costruttive operate all’epoca e alla natura dei materiali utilizzati. Con qualche cautela si può tuttavia recuperare una macchina di buona qualità e di facile uso, con mirini nitidi e luminosi e non da ultimo, con una serie di ottiche eccellenti con un elevato rapporto qualità prezzo.
Tra le principali insidie che si nascondono dietro l’acquisto di una ZORKI in generale e del modello 4K in particolare, vi è il problema della staratura del telemetro e quella del corretto funzionamento dell’otturatore.
Entrambe le questioni suggeriscono di acquistare queste fotocamere potendole vedere e sommariamente testare in via preventiva.
Iniziamo dal telemetro.
La staratura del telemetro è abbastanza facile da individuare purché, ovviamente, la fotocamera abbia l’obiettivo montato.
Il disallineamento verticale può essere agevolmente aggiustato tramite il sistema di taratura posto di fianco al mirino, accessibile una volta rimosso il tappo a vite presente sulla calotta.
Quello orizzontale richiede purtroppo lo smontaggio della calotta, operazione complicata, nel modello 4K, dalla difficoltà di riposizionare la grossa molla di ritorno della leva di carica.
La questione dell’otturatore è invece un po’ più complessa.
Queste fotocamere montano un inusuale ritardatore il quale, anziché agire frenando il ritorno della seconda tendina, funge da attivatore del meccanismo di chiusura. Ne risulta che in caso di cattivo funzionamento del ritardatore, dopo lo scatto la seconda tendina rimarrà aperta sino alla ricarica.
Un secondo effetto del malfunzionamento di questo meccanismo è lo scatto sullo stesso tempo qualsiasi sia la velocità impostata dal selettore.
Purtroppo la riparazione, per quanto banale, richiede lo smontaggio di buona parte dell’apparecchio e deve essere eseguita da un buon conoscitore di queste fotocamere per via della difficoltà a rimettere in sede il meccanismo di temporizzazione, che richiede una complicata e particolare messa in fase.
Una ZORKI 3, 4 o 4K che presenti questi difetti potrebbe dunque richiedere un costo di riparazione ben più elevato del valore della fotocamera.
Effettuati questi test non si scongiura l’eventualità che il mezzo sia esente da alcune imprecisioni nell’effettuare i diversi i tempi di otturazione, soprattutto i più veloci, ma basterà fare un primo rullo di prova annotando a occhio gli eventuali scarti in stop tra le differenti coppie tempo/diaframma a parità di esposizione.
Questo qualora non si abbia l’opportunità di far misurare le velocità da un riparatore con l’apposito strumento.
Superate con successo queste attività si potrà fruire di una fotocamera in grado di dare buoni risultati ma soprattutto si potranno utilizzare ottiche di qualità in grado anche di restituire una bella patina vintage, come ad esempio per il 28 mm Orion – 15.
Non volendo compiere il triplo carpiato dell’acquisto di una 4K, con i controlli di rito, vi è sempre l’alternativa di montare le ottiche 39×1 su corpi a telemetro di altre marche, vista l’universalità del passo.
Personalmente, per quanto io non abbia per la casa di Wetzlar un grande trasporto, montare uno Jupiter su un corpo a vite o M è una prospettiva che mi provoca comunque una fastidiosa eruzione cutanea.
Nutro massimo rispetto per chi lo fa, purché non si metta poi a discutere sul bokeh o altre simili questioni, motivo anch’esse del manifestarsi di dermatiti atopiche.
Mi qui arriva, almeno per me, la grande lezione che sta dietro all’utilizzo di questo materiale.
Provo a fare un esempio.
Per i suoi estimatori, Indro Montanelli è famoso per i contenuti dei suoi scritti piuttosto che per la precisione con la quale la sua iconica “Lettera 22” faceva la “A” piuttosto che le “P”. Posso anche garantirvi, per averci provato, che accucciarsi con una portatile Olivetti sulle gambe non consente di ottenere gli stessi risultati in termini lessicali e narrativi del grande Indro o di altri grandi giornalisti e scrittori che hanno usato questa macchina.
In altri termini, come già sosteneva Plutarco, “camera non facit photographum” :-).
Ritengo quindi che la prima delle grandi lezioni che deriva dall’utilizzo del materiale sovietico, sia nel constatare come imprecisione dei mezzi e la particolarità dei risultati possa diventare un mezzo per veicolare il linguaggio fotografico. Non si spiega diversamente il successo di Lomography che peraltro ha sostenuto l’uso della pellicola in anni nei quali gli appassionati della “perfezione”, me compreso, hanno svenduto gran quantità di corredi analogici per acquistare fotocamere digitali.
Il ritorno alla materialità della pellicola e della stampa avviene oggi al pari di quanto è accaduto e sta accadendo in altri settori, dove il digitale ha determinato una dematerializzazione troppo spinta.
Ci si sorprende quindi del fascino di poter toccare una stampa o della imperitura durata di un negativo rispetto ad un file digitale, piuttosto che del grande e appassionate patrimonio di conoscenza e tecnica che bisogna acquisire e mantenere per scattare in analogico. Ma soprattutto emerge che l’analogico ha un linguaggio e una forma espressiva tutta sua non necessariamente improntata alla precisione.
Viva quindi la fotografia!
La fotografia in 4K.
Massimiliano Terzi.
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