I quattro fotografi morti in elicottero.
Il 10 Febbraio 1971, un elicottero dell’esercito del Viet Nam del Sud, fu colpito sui cieli del Laos dal fuoco nemico ed esplose in una palla di fuoco, uccidendo quattro grandi fotografi di guerra: tra i dispersi c’erano due vincitori del premio Robert Capa, Larry Burrows della rivista LIFE ed Henri Huet di Associated Press. Con loro, Kent Potter di United Press International e Keisaburo Shimamoto di Newsweek e Pan-Asia Newspaper Alliance. Al momento dello schianto, i quattro fotografi seguivano gli sviluppi dell’Operazione Lam Son 719; una massiccia invasione corazzata in Laos da parte delle forze sudvietnamite, contro l’esercito popolare nordvietnamita e il Pathet Lao, con l’intenzione di interdire e recidere la rete di approvvigionamento del Viet Nam del Nord, l’essenziale canale di rifornimento di Hanoi verso meridione, attraverso il cosiddetto sentiero di Ho Chi Minh.
Nell’elicottero Huey, morirono insieme a loro sette militari dell’esercito sudvietnamita, tra i quali due ufficiali, un fotografo militare, il navigatore e il pilota.
Quando la guerra finì, quattro anni dopo, la zona di guerra fu chiusa e l’incidente in elicottero svanì dai titoli dei giornali.
Un secondo elicottero dell’esercito del Viet Nam del Sud fu abbattuto contemporaneamente e furono uccisi almeno altri quattro soldati. I due elicotteri furono abbattuti da un cannone antiaereo nordvietnamita da 37 mm, al confine tra Viet Nam e Laos, vicino a Ben Het, dove i reporter stavano aspettando la possibilità di coprire le truppe vietnamite del sud durante l’attacco al famigerato sentiero di Ho Chi Minh, all’interno del Laos. L’azione sudvietnamita incontrò il forte contrasto dell’esercito popolare del Viet Nam del Nord e del Pathet Lao (… la fazione laotiana comunista già alleata con i nord-vietnamiti di Ho Chi Minh nella guerra d’Indocina contro i francesi). In quell’area si trovavano alcune delle più pesanti concentrazioni di difesa antiaerea del nemico.
Gli elicotteri di soccorso americani riuscirono a raggiungere l’area più tardi e individuare il relitto di entrambi gli elicotteri. Riferirono di aver visto corpi sul terreno ma “nessuna indicazione di sopravvissuti”, aggiungendo che il luogo era così insidioso che si poteva impiegare almeno una settimana affinché le forze di terra raggiungessero il relitto.
Il Comando americano in seguito realizzò che per raggiungere il sito dell’impatto, bisognava sconfinare in Laos, proprio dove essi conducevano una intensa operazione clandestina, con bombardamenti e successive rapide sortite di reparti d’èlite, quindi il malagevole territorio fortemente ostile e la non remota possibilità d’interferire pericolosamente con le operazioni in corso, resero impossibile ogni tentativo di recupero dei resti umani.
Larry Burrows, era nato a Londra 44 anni prima, ed aveva coperto la guerra del Viet Nam per la maggior parte del tempo dal 1962. Ricevette due volte il premio Capa dell’Overseas Press Club e nel 1966 è stato nominato fotografo dell’anno dalla School of Journalism dell’Università di Missouri.
Ralph Graves, direttore editoriale di LIFE, dichiarò: «Ha trascorso nove anni a coprire questa guerra in condizioni di pericolo incredibile. Pensavamo ad altre storie più sicure da fargli fare, ma lui le avrebbe fatte e sarebbe tornato in guerra. Come disse; la guerra era la sua storia e voleva vederla fino in fondo.»
Burrows era considerato da molti il miglior fotografo da combattimento che sia mai esistito.
All’interno della fraternità giornalistica del Viet Nam, nessuno altro ottenne più rispetto di Burrows.
Nel 1942, a sedici anni lasciò la scuola ed iniziò a lavorare nella stampa cittadina, prima nel dipartimento artistico del Daily Express dove apprese la fotografia e passò alle camere oscure dell’agenzia di fotografia Keystone e nell’ufficio londinese della rivista LIFE, dove stampò fotografie; fu qui che Henry Frank Leslie Burrows cominciò a farsi chiamare Larry per evitare confusione con un altro Henry che lavorava nello stesso ufficio. Alcuni raccontano che Burrows avesse fuso nell’essiccatore i negativi del D-Day del fotografo Robert Capa, ma secondo John G. Morris, in realtà fu un altro a compiere il grave errore, un assistente della camera oscura che chiuse la porta di un armadio di essiccazione e fuse l’emulsione del film. Comunque Burrows dalla camera oscura passò alla ripresa, crescendo e progredendo. Sebbene fosse corrispondente di guerra per diversi conflitti internazionali, compresi quelli in Libano, Iraq, Congo e Cipro, è noto per la sua copertura della guerra in Viet Nam. Nel 1961 infatti, Burrows si affermò come fotografo dello staff di LIFE per la guerra del Viet Nam. Burrows fece quello che poteva per sperimentare la guerra da soldato: visse in campi militari e rimase in prima linea con i soldati durante il fuoco nemico.
Burrows era stato a Calcutta quando venne a sapere di Lam Son 719 e tornò di corsa in Viet Nam. Solo quattro giorni prima di salire per l’ultima volta a bordo dell’ UH-1, infatti, lui e Henri Huet erano stati tra i contingenti che avevano fatto l’autostop in un convoglio blindato diretto verso il confine. La colonna si era fermata al crepuscolo quando fu erroneamente attaccata da un jet della Marina degli Stati Uniti. Le bombe a grappolo antiuomo uccisero 6 soldati del Viet Nam del Sud e ne ferirono 51. Quando i bombardamenti si fermarono, «Burrows fu il primo ad uscire dal fossato», ricorda il fotografo Roger Mattingly «… di fronte egli aveva una situazione caotica e una luce inesistente». Burrows scattava foto mentre aiutava a trascinare i feriti colpiti da un lanciagranate RPG-7: «Guardarlo lavorare sotto quella pressione… », afferma Mattingly, «… è stata l’esperienza più rivelatrice che ho avuto in Viet Nam.»
Henri Huet, nasceva in Viet Nam 43 anni prima. Carattere estroverso, nato sugli altopiani centrali del Viet Nam, da un ingegnere francese e madre vietnamita, cresciuto fin dall’età di cinque anni, dopo la morte di sua madre, dai parenti in Bretagna a Saint-Malo, nella Francia del nord. Soffrì molto per gli insulti razziali che gli rivolsero da piccolo. Studiò alla scuola d’arte di Rennes e iniziò la sua carriera come pittore. A 21 anni, si arruolò nella Marine nationale francese, sperando di ricongiungersi con suo padre, che viveva isolato nella piantagione di famiglia a Da Lat. Assegnato a un’unità di ricognizione, imparò la fotografia aerea e nel 1949 ricevette un incarico come fotografo di combattimento, guadagnandosi sul campo una lunga esperienza nel fotografare la guerra dell’Indocina. Fu un fotografo di guerra con le forze francesi fino al 1952 e quando la guerra finì nel 1954, Huet rimase in Viet Nam come fotografo civile che lavorava per i governi francese e americano, impiegato presso il laboratorio fotografico americano Operation Mission fino al 1961, prestando servizio anche come fotografo per il Servizio di Informazione degli Stati Uniti.
In seguito trovò lavoro presso la United Press International UPI dove rimase fin quando perdurò lo spirito competitivo con il leggendario “uomobiettivo” Eddie Adams. Successivamente si trasferì nello staff di Associated Press, nel 1963, per coprire la guerra del Viet Nam.
Il premio Capa* gli fu assegnato nel 1967 come “miglior reportage fotografico all’estero, che richiede coraggio ed intraprendenza eccezionali”.
Wes Gallagher, direttore generale dell’Associated Press, disse che questo premio esemplificava la personalità di Huet: “coraggio silenzioso e bella fotografia”.
Huet era diventato il fotografo di punta dell’ufficio Saigon di AP, essendo noto, come Burrows, per il coraggio dimostrato sotto il fuoco nemico. Instaurò un rapporto immediato con ufficiali e soldati e generò una fratellanza speciale con i giornalisti che accompagnava sul campo. “Henri va in guerra con la consuetudine con cui gli altri vanno in ufficio.”, osservò Horst Faas, a quell’epoca, capo dei fotografi di Saigon della Associated Press. Humor e gentilezza non gli difettavano.
Le immagini di Huet esponevano le agonie del Viet Nam: soldati fradici e umanamente immiseriti; contadini terrorizzati. Un uomo profondo dall’apparenza sbarazzina. Huet era molto discreto, raramente discuteva della sua vita personale, con le sue fidanzate o con la sua ex moglie, che viveva in Nuova Caledonia con i suoi due figli.
Nel 1967, Huet trascorse mesi a riprendersi dalle ferite da mortaio; due anni dopo, preoccupati per la sua salute, l’Associated Press lo spinse ad accettare un trasferimento. Una volta stabilitosi a Tokyo, tuttavia, gravato dalla routine, divenne frustrato. Inoltre, la supposta tranquilla zona nelle retrovie della guerra, la Cambogia, stava improvvisamente ribollendo. Huet allora si impose con un ultimatum appassionato: « … rimandatemi indietro o me ne andrò.» All’inizio del 1970 i suoi capi lo riportarono a Saigon.
*Quando i francesi coinvolti nella guerra dell’Indocina, capitolarono nel 1954, ammontavano a circa una decina i giornalisti uccisi durante quel conflitto. Tra questi c’era il fotografo di LIFE, Robert Capa, pseudonimo di Endre Friedmann, co-fondatore di Magnum Photos, per il quale è stato istituito il premio Capa. Morì per l’esplosione di una mina proprio nel 1954 a Thai Binh.
Keisaburo Shimamoto aveva 34 anni. Nacque a Seoul nel 1937, durante l’occupazione giapponese della Corea. Cresciuto a Tokyo, sperimentò le incursioni americane dei bombardieri B-29 Superfortress e ascoltando la radio della sua famiglia sentì l’imperatore Hirohito annunciare la resa del Giappone. Laureato in letteratura russa presso la prestigiosa Università Waseda di Tokyo, Shimamoto sembrava destinato a una carriera accademica o letteraria, ma suo fratello maggiore Kenro, un giornalista, lo trascinò nel fotogiornalismo. Su incarichi per la Pan-Asia Newspaper Alliance e in seguito per Newsweek, seppur introversa, divenne una figura molto amata nella affiatata comunità giapponese di Saigon. Figlio della guerra, dovendo affrontare il conflitto lottò con se stesso, annotando una volta nel suo diario sempre aggiornato: «La guerra scuote le persone con la sofferenza e le spalma con l’umiliazione. Voglio vedere tali verità?… Forse penso di sì.»
Anche Francois Sully suo amico e collega di Neewsweek fu ucciso in Viet Nam poche settimane dopo quel fatidico 10 Febbraio 1971.
Kent Potter nasceva 24 anni prima a Philadelphia. Era il terzo fotografo sull’elicottero. Nato in una famiglia di quaccheri a Philadelfia, Potter iniziò la sua passione presso la United Press International, da adolescente, facendosi strada nel lavoro di uno staff, mostrò notevole istinto per la fotografia di cronaca. Secondo gli amici, aveva un desiderio quasi ossessivo di arrivare in Viet Nam, andando contro il grano “pacifista”, coltivato dalla sua famiglia. Voleva partire però alle sue condizioni. Mentre alcuni quaccheri divennero obiettori di coscienza, Potter risolse il suo problema di leva obbligatoria, arruolandosi nella riserva del Corpo dei Marine, svolgendo il servizio di soldato del fine settimana, in attesa di essere convocato all’estero. All’inizio del 1968, accadde qualcosa. Proprio quando il ventenne Potter doveva essere chiamato in servizio attivo, United Press International gli offrì un posto a Saigon, in sostituzione di un fotografo ucciso in azione. Se fosse partito in Vietnam come fotografo militare, non avrebbe poi ottenuto il suo lavoro da civile presso la UPI.
Iniziò subito a coprire i combattimenti di strada dell’offensiva del “mini-Tet”. Potter ci sguazzava nell’azione e nella competizione ma amava anche scherzare: «… prendiamo a calci quelli di Associated Press», gli sentiva dire il suo ex capo Bill Snead.
Lo ricorda la collega di UPI, Kate Webb, una neozelandese che divenne sua cara amica e confidente: «Trovavamo sollievo nel non avvertire alcun disagio mentre ci raccontavamo storie di guerra. Trascorrevamo parecchie serate seduti su sedie di canna, guardando fuori sui tetti, parlando del mondo e di tutto, osservando il sole tramontare.. .»
Nel 1970, la UPI suggerì un trasferimento, ma come Huet, anche Potter minacciò di dimettersi. Come compromesso, Potter fu riassegnato a Bangkok, fuori dal percorso della guerra. Dopo pochi mesi, fu richiamato per coprire l’Operazione Lam Son 719 e salì purtroppo anche lui su quell’elicottero.
Due scatti al termine.

Photo credit/courtesy: © Sergio Ortiz Ultimo imbarco. Manca poco al decollo e Shimamoto, Huet e Burrows hanno già preso posto sullo Huey. Potter di schiena, mano in tasca, sta ancora a terra.
Immagine dal valore storico.
Pochi attimi dopo, dalla foto precedente e questa è davvero l’ultima volta che li vediamo tutti insieme, mentre si sistemano sullo Huey, in procinto di decollare e in prossimità, inconsapevoli, della morte che li sta attendendo.
Da sinistra: in fondo di profilo Keisaburo Shimamoto; di spalle Henri Huet; Larry Burrows, asciugamano al collo; a destra di profilo Kent Potter, piedi in terra, prossimo a salire a bordo. Fa impressione, conoscendo il destino delle persone ritratte, pensare a come una foto possa fermare un istante; è come se li mantenesse in vita per sempre, con quegli sguardi, una battuta, una smorfia, qualche sorriso. Alè, direbbe Henri.
Burrows, Huet, Potter e Shimamoto si assicurarono i posti, ma c’era ancora abbastanza spazio per il sergente Tu Vu, un giovane fotografo dell’esercito vietnamita e il giornalista freelance Harold Ellithorpe, che progettava di stilare il testo che sarebbe stato pubblicato con le foto di Burrows sulla rivista settimanale LIFE. Altri che si aggiravano intorno ai quattro elicotteri, cercando di farsi il primo giro in Laos, non erano riusciti a salire.
Poco prima di mezzogiorno, il Tenente Generale Hoang Xuan Lam emerse da una tenda vicina. Camminando con un bastone, a causa della gotta, Lam ordinò a due dei suoi ufficiali di salire a bordo del secondo elicottero, dove il gruppo di reporter e un equipaggio di quattro erano già serrati alle cinture di sicurezza.
Il Generale Lam, morto nel 2017 in California dove viveva, raccontò perché divise il suo seguito di sottoposti. «Normalmente, i miei ufficiali avrebbero cavalcato con me», disse, «… ma i vietnamiti del Nord, sapendo da tre mesi che stavamo arrivando, misero molte batterie antiaeree in Laos. Eravamo preoccupati di essere abbattuti.»
I due colonnelli dell’equipaggio, temendo per l’eccesso di peso, chiesero al pilota di fare un rapido hover take-off test, un test strumentale di decollo e questi rispose che qualcuno doveva scendere. Burrows risolse il problema: «La vita è una rivista di immagini… », disse a Ellithorpe, il suo partner di Life, aggiungendo: «… andrai più tardi.»
Il giornalista annuendo, slacciò la cintura di sicurezza e saltò fuori per unirsi agli altri a bordo pista.
Burrows senza saperlo gli salvò la vita e scolpì per sempre quelle sue ultime parole, come fosse un pronunciamento profetico: «… andrai più tardi», nella mente e nel cuore di Harold Ellithorpe e proprio grazie a lui conosciamo quegli ultimi frangenti di vita dei suoi colleghi ed amici.
Lam diede l’ordine di partenza. Le quattro turbine cominciarono a ruotare, il sibilo divenne rumore. Gli esperti piloti fecero alzare di scatto gli Huey che barcollando in avanti e in alto, si allinearono e partirono. Dopo una sosta tecnica a Landing Zone Ranger South una base di ricognizione nel profondo territorio ostile la loro destinazione finale era il Laos. Lam insistette sul fatto che i suoi piloti “non si erano persi” tra le nuvole basse, ma anche lui non riuscì a capire perché i suoi tre elicotteri in coda si fossero allontanati a più di un miglio dalla rotta. Nascoste nelle profondità della giungla, le unità di contraerea del Viet Nam del Nord erano in stato di allerta da giorni. Le colline erano infarcite di postazioni interrate, dove i cannoni antiaerei erano ben mimetizzati; invisibili alle ricognizioni aeree. Le due deflagrazioni interruppero il ritmo roco degli Huey.
8 Febbraio 1971. Inizio della Operazione Lam Son 719
Il Tenente Generale Hoang Xuan Lam, passa in rassegna le truppe e impartisce gli ultimi ordini poco prima dell’avvio della massiccia incursione corazzata in Laos.

8 Febbraio 1971. Il Comandante, Tenente Generale Hoang Xuan Lam, nelle ore antecedenti l’inizio della Operazione, passa nell’accampamento tra le vettovaglie dei soldati, per sondare l’umore delle truppe.. Photo credit/courtesy: © Bettmann/CORBIS

8 Febbraio 1971. Il Tenente Generale Hoang Xuan Lam, in un briefing informale con un Generale americano, poco prima dell’inizio della Operazione Lam Son 719. Photo credit/courtesy: © Bettmann/CORBIS

9 Febbraio 1971, confine laotiano, tra Viet Nam del Sud e Laos. Il giorno successivo l’inizio della Operazione Lam Son 719. Carristi e fanti dell’esercito sudvietnamita, sopra un M113 ACAV (… Armoured Cavalry attack) mimetizzato, guidano una colonna corazzata verso il confine laotiano. Queste truppe erano nel primo gruppo che si è mosso lungo la Route 9 ed è entrato in Laos dando inizio ad un’invasione che aveva lo scopo di interferire e interrompere l’approvvigionamento logistico e di armi, per Viet Cong e truppe regolari nordvietnamite, lungo il famigerato sentiero di Ho Chi Minh. Il giorno successivo, 10 Febbraio 1971, l’artiglieria contraerea del Nord Viet Nam al confine con il Laos, abbatterà due elicotteri sudvietnamiti, su uno di questi vi erano Burrows, Shimamoto, Potter e Huet. Photo credit/courtesy: © Bettmann/CORBIS

7 Aprile 1971, Dong Ha, Vietnam del Sud: il Presidente del Viet Nam del Sud, Nguyen Van Thieu, si rivolge alle truppe sudvietnamite schierate, che hanno partecipato alla operazione Lam Son 719 in Laos: dall’8 febbraio 1971 al 25 marzo 1971. Thieu venne in questa base vietnamita, 10 miglia sotto la zona demilitarizzata, per consegnare le medaglie ai soldati meritevoli che avevano partecipato all’operazione. Si scorge a sinistra di profilo, l’unico con il basco in testa, il Tenente Generale Hoang Xuan Lam, che racconterà l’evento del giorno 10 Febbraio 1971, accaduto appena due giorni dopo l’inizio dell’Operazione, in cui furono abbattuti i due elicotteri. Photo credit/courtesy: © Bettmann/CORBIS

Sguardo simpatico quello di Henri Huet, a bordo di una portaerei americana nel Mar Cinese meridionale, a largo delle coste del Viet Nam, con Leica M2, Leitz Summicron 35/2 “otto lenti” codice SAWOM e paraluce codice 12585H.

Un dipinto di Henri Huet. “Rocher près de Concarneau” – Roccia vicino a Concarneau. La baia di Concarneau, in Bretagna, non distante da Saint-Malo, dove Henri ha vissuto.

Il sorridente Keisaburo Shimamoto, sorregge con cura la sua Leica M4 per non farla urtare con la macchina sottostante. La mimetica indossata da Keisaburo era del tipo in dotazione ai reparti d’èlite MACV-SOG (Military Assistance Command, Viet Nam – Studies and Observations Group) costituiti da unità speciali americane e non, che compirono una serie di operazioni rigorosamente classificate, non convenzionali, nonchè clandestine, con incursioni in aree fuori dal territorio del Viet Nam: Laos e Cambogia. Queste unità miste interforze erano formate da elementi scelti dei Green Berets, Navy Seal’s, pionieri e ricognitori dei Marines, CIA e combattenti cristiani Degar Montagnard (… un’etnia formata da variegati gruppi linguistici aborigeni; mongolo-tibetano e malese -polinesiano).

Photo credit/courtesy: © Amy Joseph/Newseum; regalo di Sherry Potter Walker al Newseum, 555 PENN- SYLVANIA AVE., N.W., WASHINGTON, DC 20001 Piastrine militari di riconoscimento, un accendino Zippo dedicato ai membri del centro stampa della base americana di Da Nang, pass per la stampa e bussola militare da polso, utilizzati dal fotografo della United Press International, Kent Potter.
Il recupero dei resti.
Ventisette anni dopo, una Task Force di un’agenzia del Pentagono, creata nel 1992 in base a un accordo diplomatico con Laos, Cambogia e Viet Nam, composta da una squadra di periti militari statunitensi e specialisti forensi, fu inviata in un punto remoto nella boscaglia laotiana, una radura precedentemente senza nome, poi ufficialmente conosciuta come Sito 2062, per ritrovare i resti dei caduti. Quella che questi uomini e donne credevano, dopo un’ulteriore ispezione, si sarebbe rivelata essere la fatidica collina dell’impatto.
Accompagnarono la Task Force americana, Horst Faas, all’epoca capo dei fotografi della Associated Press a Saigon e l’allora suo capo Ufficio, Richard Pyle, che ha coperto la guerra del Vietnam per l’Associated Press per quasi cinque anni a partire dal 1968 ed è stato capo ufficio AP di Saigon dal 1970 al 1973. Il luogo dell’impatto era stato individuato nel 1996 ed era localizzato nella provincia di Savannakhet in Laos, ma solo due anni dopo, fu possibile la ricognizione ed il recupero dei resti ad opera di una squadra del Joint POW/Missing In Action Accounting Command (JPAC) con sede a Honolulu nelle Hawaii.

Photo credit/courtesy: © Associated Press Il tedesco Horst Faas in mimetica ed elmetto, US Army, nel Vietnam del Sud. Fotografo e responsabile degli altri fotografi Associated Press con le sue due Leica M2: una con Leitz Summicron 35/2 “otto lenti”, codice SAWOM, filtro Uva chrome E39 Leitz e paraluce codice 12585H; l’altra M2 con Visoflex III, elicoide codice OTZFO/16464, testa ottica Leitz Elmarit 90/2.8 codice 11129, con paraluce, codice IUFOO.
Le focali lunghe erano molto utilizzate in Viet Nam, da molti fotografi, per riprese a distanza, laddove non ci si poteva avvicinare, a ben donde, per propria incolumità, visto che il pericolo era il pane quotidiano del reporter, ma anche per la compressione dei piani, i tagli di scene, senza disdegnare qualche ritratto, trovavano tutti, il loro efficace perchè. Pure il 90mm, un medio tele duttile, un tuttofare utilissimo. Il buon Horst, prediligeva utilizzarlo su una specifica Leica M2 con l’ausilio del Visoflex. Parrebbe una scelta macchinosa e scomoda, visto l’imbombro e il peso dell’intero pacchetto, tuttavia va rilevato che il sistema di messa a fuoco del suddetto Visoflex era molto luminoso; si giovava di uno schermo in vetro finemente smerigliato, che garantiva un’immagine grande e brillante. La messa a fuoco era di molto facilitata, grazie alla illuminazione uniforme su tutto il piano, fino agli angoli. Non aveva lo stigmometro, gli anelli di Fresnel e i microprismi che invece avevano le reflex di allora, ma questo era un vantaggio per le riprese lontane con lunghi tele meno luminosi, perchè il campo d’immagine rimaneva sempre chiaro. Lo scatto era molto silenzioso in completa assenza di vibrazioni e togliendolo dal corpo macchina si poteva tornare alle peculiari caratteristiche del sistema telemetrico. L’Elmarit 90/2.8 è a tutt’oggi un ottimo obiettivo, dotato di un buon grado di nitidezza che unita a un contrasto non eccessivo, lo rende ancora un prezioso utensile. La luminosità massima relativa f/2.8 insieme alla diffusa dotazione di eccellenti pellicole come la celeberrima Kodak Tri-X 400, ma anche la Kodak Ektachrome, facevano il resto. Utilizzando solo la testa dell’Elmarit, su Visoflex, si otteneva un insieme compatto, bilanciato; un solido peso complessivo che pur con tempi di scatto lenti, difficilmente si rischiava il cosiddetto “mosso”.

Photo credit/courtesy: © Associated Press La foto dell’ottobre 1970 mostra Richard Pyle con la sua M2, davanti a un jet americano. Giornalista e capo dell’ufficio Associated Press a Saigon; la sua carriera ha attraversato mezzo secolo di guerre, catastrofi e altre storie indelebili.

1970. Ufficio dell’Associated Press a Saigon. Richard Pyle, con camicia a righe e gamba destra sulla scrivania. Photo credit/courtesy: © Asso- ciated Press
Di nuovo insieme.
Laos, Marzo 1998. Horst Faas, a sinistra e il suo ex capo ufficio di Associated Press presso Saigon, Richard Pyle, si trovano sul luogo dell’impatto al suolo, dello Huey di Burrows e compagni. Frattanto, poco più in là, una squadra di ricerca dei Missing in Action statunitense sta sondando il terreno per trovare resti umani e i rottami dell’elicottero sul quale morirono, nel 1971, i quattro fotografi di guerra.
Horst Faas e Richard Pyle trascorsero tre giorni interi sul sito. Il team laotiano-americano eseguì ingegnose imprese di archeologia e ingegneria. Gli operai nativi, sotto la direzione di un ex militare americano con un elmetto verde, tagliavano in fretta i pali di bambù, li legavano insieme ed erigevano piattaforme simili a palafitte, abbastanza robuste da sostenere molte persone. Gli equipaggi statunitensi aprivano rapidamente un quadrato di terra delimitato, scavavano, setacciavano la terra, per passare alla successiva. Intorno a loro su tutti i lati c’era un guanto minaccioso di bombe inesplose, ancora mortali dopo decenni.
La scoperta avvenne all’improvviso. A metà del burrone, dove i lavoratori laotiani avevano passato secchi di terra alla stazione di screening, il sergente dell’esercito americano Bill Adams, uno specialista mortuario, raggiunse lo stretto spazio tra due rocce.
Mezzo sepolto nella cavità, incrostato di terra, c’era un piccolo oggetto cilindrico con una manopola in cima. Adams era stato addestrato a “pettinare” un sito di uno schianto, per un dente, un osso o eventuali resti umani. Ma questo, lo sapeva da subito, era chiaramente innaturale. La manopola ricordava un detonatore. Adams, in piedi, gridò: «Sergente Holden! Ho bisogno del tuo aiuto!»
“Bombie!” Gridò uno dei lavoratori laotiani più anziani. Tutti lasciarono cadere i secchi, alcuni si precipitarono lungo il burrone, altri lungo il letto roccioso del torrente.
Carl Holden, un esperto di esplosivi marini, si diresse verso Adams, si accovacciò, poi allungò la sua mano addestrata, spostando delicatamente e sollevando l’oggetto. Girò il cilindro in mano. «È l’obiettivo di una fotocamera», disse. «Hanno trovato un obiettivo!” urlò Horst, più in alto sulla collina. Era euforico, il suo sorriso trionfante. Attese e poi esaminò la scoperta di Adams. Riuscì a distinguere le lettere: “NIKKOR-H 35mm Auto T3 F = 2.8cm 315907. Nippon Kodaku Japan” — un obiettivo per una Nikon F, equipaggiamento standard per molti fotografi che coprivano la guerra.
Alla fine dello scavo abbreviato a causa di una moltitudine di ordigni inesplosi nel burrone il sito aveva prodotto molto materiale di vite interrotte: quattro denti; diverse fibbie per cinture e suole degli scarponi; due orologi Seiko; un cinturino Rolex d’oro; altri due obiettivi Nikon (… numeri di serie cancellati); due targhette Nikon (… probabilmente di borse per fotocamera); 13 rullini di pellicola da usare (… di cui uno ancora all’interno di un contenitore chiuso); un lanciarazzi; bottoni da uniforme; una chiave a lucchetto; un coltello da sopravvivenza; una pistola calibro 38 e una moltitudine di rottami del velivolo, tutto alla scrupolosa attenzione della Task Force congiunta. Altri due elementi erano particolarmente significativi: un pezzo di un corpo macchina Leica con numero di serie 996767 ben leggibile e un medaglione religioso con la Vergine Maria su un lato e “Cecile, 16-6-47” inciso sull’altro.
Una volta tornati a casa, per conto della rivista Vanity Fair ed insieme ad Horst Faas, Richard Pyle si mise in contatto con la sede di Leica a Solms, in Germania. Essi, consultando i registri di fabbrica Leitz, comunicarono che una fotocamera cromata modello M3, numero di serie 996767, era stata venduta dalla filiale al dettaglio Leitz di Londra, il 7 luglio 1960. I registri dell’acquisto non esistevano più nei file di Leica o di Life o tra i documenti personali di Larry Burrows. Ma Burrows, che girava con una Leica, viveva a Londra e aveva motivo di aver acquistato una macchina fotografica quell’estate. Suo figlio, Russell, ricorda infatti che il 1° luglio 1960, mentre si trovava in Africa a coprire l’indipendenza del Congo, Larry era stato coinvolto in una sommossa di strada, la sua attrezzatura si era rotta. «Riparò una macchina fotografica con parti di altre macchine danneggiate», disse Russell, «… ma sicuramente avrebbe acquistato nuove attrezzature al suo ritorno.»
Per Richard e Horst non ci fu bisogno di ulteriori prove. Per loro, il caso 2062 era chiuso. Camminando sulla collina, respirarono l’aria della giungla. Qualsiasi dubbio sull’ultimo luogo di riposo dei loro amici era stato seppellito ora, insieme a loro.
Ciò che conserviamo oggi sono le immagini scattate da questi quattro uomini su altri pendii ed altri luoghi. «Guarda le foto che mio padre e gli altri si sono lasciati alle spalle», disse Russell Burrows, «… sono qualcosa di tangibile. Stai vedendo il mondo come lo vide il fotografo, guardando quella parte che lui voleva che tu vedessi, come ha fatto lui. Questo è molto più importante dei resti fisici.»
Il giorno dopo la chiusura del sito per ulteriori scavi, la collina fu visitata da un altro uomo: Kenro Shimamoto, il fratello maggiore di Keisaburo. Dopo aver letto un resoconto giornalistico dello scavo, era volato in Laos dal Giappone. Una volta li, eseguì una cerimonia buddista. Raccolse il terreno e lo mise in una piccola urna, una sostituzione simbolica per i resti di suo fratello, da seppellire in Giappone. Kenro rivelò in seguito di aver sentito quel giorno la voce di suo fratello, nel vento caldo che soffiava, rivolgendosi a lui come “O-nii-chan”, che significa “caro fratello maggiore.”
Una Leica nr.996767, una medaglia incisa “Cecile, 16-6-47”. I due oggetti rimangono su uno scaffale del laboratorio di identificazione centrale dell’esercito, alle Hawaii, insieme ad altre prove. Le autorità, tuttavia, non avevano ancora risolto la questione di “Kent Potter, il civile statunitense, morto”Potter era il solo americano tra i quattro. Prima che i funzionari potessero affermare, in modo inequivocabile, che questo era il luogo dello schianto, dovevano attendere ulteriori analisi forensi, compresi possibili test del DNA (… i campioni genetici dei discendenti di Larry Burrows potevano corrispondere ad alcuni dei reperti recuperati).
Questa la testimonianza tratta dal libro di Richard Pyle, scritto insieme ad Horst Faas: “Lost Over Laos: A True Story of Tragedy, Mystery and Friendship” Da Capo Press, Editor.

Photo credit/courtesy: © Associated Press Richard Pyle, supervisore nell’ufficio AP di Saigon e vincitore del premio Pulitzer proprio per la Associated Press, durante gli anni critici della guerra del Viet Nam, è morto all’età di 83 anni a New York, venerdì 29 settembre 2017. Requiescat in Pace, Richard.
I reperti trovati.
Oltre alla medaglina d’oro di Huet ecco altri reperti ritrovati nel luogo degli scavi.
In alto a sinistra vi è la calotta, con leva di carica, pulsante di scatto e selettore tempi della Leica M3 di Larry Burrows.
Sotto ad essa un porzione di calotta di una Leica M2, con leva di carica, pulsante di scatto, con contascatti coassiale, selettore tempi e a fianco vi è il meccanismo ritardatore dei tempi lunghi di una Leica M2 della Leica M2 cromata silver di Henri Huet.
Appena sotto c’è un spool deformato per Leica M3/M2 e sotto ad esso una flangia a baionetta d’innesto ottiche Leica.
In alto a destra il barilotto di un’ottica Nikkor.
Sotto ad esso un obiettivo completo, ma si fatica ad identificarlo.
In fondo a destra si vede la calotta del pentaprisma di una Nikon F FTN. Gli altri oggetti di fianco e sopra non sono ben distinguibili.

Photo credit/courtesy: © AP Photo / Ronen Zilberman La calotta deformata della Leica M3 matricola nr. 996767 di Burrows, con leva di carica, selettore tempi e slitta porta-accessori. L’impatto con il proiettile a traiettoria dritta dell’artiglieria antiaerea e il conseguente incendio del kerosene dello Huey, hanno sviluppato temperature molto elevate determinando la particolare deformazione della calotta, in ottone cromato silver, della Leica M3 di Larry Burrows.

Photo credit/courtesy: © ACE PRESTON Il 3 Aprile 2008, si è tenuta una cerimonia al Newseum di Washington, D.C., per celebrare l’interramento dei resti di Huet, Burrows, Potter e Shimamoto.
La restituzione.
In una piccola cerimonia, martedì 8 Febbraio 2011, la ex-fidanzata di Huet, Cecile Schrouben, è intervenuta presso la sala della mostra sulle opere di Huet, alla Maison Europeenne de la Photographie di Parigi. Hélène Gédouin, nipote del fratello di Henri Huet e direttore editoriale di Hachette Livre, insieme ad Horst Faas, che è stato il direttore delle operazioni fotografiche dell’Associated Press in Vietnam dal 1962 al 1974, hanno presentato una selezione di fotografie della guerra del Vietnam, la maggior parte delle quali sono apparse sui giornali di tutto il mondo. La mostra è stata curata anche da “The Associated Press”.
Cecile, sopra al maglione nero, indossava un ciondolo in argento a tre punte; il primo regalo che le aveva fatto Huet.
Cecile non ha voluto mostrare le lettere che Huet le aveva scritto, dicendo che la corrispondenza era privata, aggiungendo inoltre che Huet, era una persona intensamente discreta e non intendeva di certo renderle pubbliche, volendo così proteggere la sua intimità e memoria. Cecile lasciò New York per la Francia a metà degli anni ’70, si rifece una vita sposandosi nel 1978 e diventando Cecile Blumental. Lei e suo marito hanno due figlie e cinque nipoti. Una sua nipotina gli ha confessato che vorrebbe un giorno avere quella medaglietta.
Giuseppe Ciccarella
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