I quattro fotografi morti in elicottero.
Il 10 Febbraio 1971, un elicottero dell’esercito del Viet Nam del Sud, fu colpito sui cieli del Laos dal fuoco nemico ed esplose in una palla di fuoco, uccidendo quattro grandi fotografi di guerra: tra i dispersi c’erano due vincitori del premio Robert Capa, Larry Burrows della rivista LIFE ed Henri Huet di Associated Press. Con loro, Kent Potter di United Press International e Keisaburo Shimamoto di Newsweek e Pan-Asia Newspaper Alliance. Al momento dello schianto, i quattro fotografi seguivano gli sviluppi dell’Operazione Lam Son 719; una massiccia invasione corazzata in Laos da parte delle forze sudvietnamite, contro l’esercito popolare nordvietnamita e il Pathet Lao, con l’intenzione di interdire e recidere la rete di approvvigionamento del Viet Nam del Nord, l’essenziale canale di rifornimento di Hanoi verso meridione, attraverso il cosiddetto sentiero di Ho Chi Minh.
Nell’elicottero Huey, morirono insieme a loro sette militari dell’esercito sudvietnamita, tra i quali due ufficiali, un fotografo militare, il navigatore e il pilota.
Quando la guerra finì, quattro anni dopo, la zona di guerra fu chiusa e l’incidente in elicottero svanì dai titoli dei giornali.
Larry Burrows. L’emozione umana

Photo credit/courtesy: © AP Photo
SAIGON 1964 Horst Faas, chino su Larry Burrows, a Saigon, davanti all’ambasciata americana. Da notare dietro il filo spinato, la borsa fotografica di Larry, aperta, dove sono riconoscibili molti rullini sigillati. Sotto alla reflex, la Leica M3.

Larry Burrows in territorio cambogiano, Maggio 1970. Inseparabile asciugamano tergisudore al collo, Leica M3 e Leitz Summicron 50/2 Dual Range con paraluce, codice ITDOO, sulla slitta porta-accessori mirino ALBADA, codice SBOOI/12015. Nascosta dalla mano destra si intravede il mirino ALBADA SLOOZ/12007 dell’altra M3 con Elmarit 28/2.8 Leitz Canada prima versione.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
Lo squadrone di elicotteri Sikorsky H-34 Choctaw dei marines e l’intero reparto radunato a Da Nang per il briefing finale di una missione del 31 marzo 1965: trasportare un battaglione di fanteria sud-vietnamita in una zona isolata a circa 20 miglia di distanza.
Nella primavera del 1965, a poche settimane dall’arrivo in Viet Nam di 3.500 marines americani, Larry Burrows iniziò a lavorare a un servizio per la rivista LIFE, raccontando l’esperienza quotidiana delle truppe americane a terra e in aria nel bel mezzo della guerra in rapida espansione. Le fotografie di questa tragica missione in elicottero, fanno parte del reportage di Burrows del 31 marzo 1965 a Da Nang, con le sue immagini e il suo racconto personale dell’operazione, pubblicato due settimane dopo, come storia di copertina divenuta famosa nel numero di LIFE del 16 aprile 1965.
Nel corso dei decenni, naturalmente, LIFE ha pubblicato decine di saggi fotografici di alcuni dei più grandi fotografi del XX secolo. Pochissimi di questi saggi, tuttavia, sono riusciti a combinare cruda intensità e brillantezza tecnica con un effetto così potente come “One Ride With Yankee Papa 13” ampiamente considerato come il più grande risultato fotografico della guerra in Viet Nam.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life
31 Marzo 1965, il mitragliere, Caporale James C. Farley di anni 21, sull’elicottero Yankee Papa 13 (… alfabeto fonetico NATO ad indicare l’elicottero YP 13), con nove fanti sud-vietnamiti a bordo).
Titolo di copertina: “Larry Burrows in Viet Nam con un gruppo coraggioso in una battaglia mortale.” Sottotitolo: “I Viet Cong si concentrano sui vulnerabili elicotteri statunitensi.” In basso a sinistra la descrizione della foto di copertina: “In un elicottero americano, nel bel mezzo della battaglia un capo squadra urlante, un pilota morente.”
Una copertina ad effetto, di quelle shock che stridono, ma qui lo scopo editoriale di copertina era evidente. Da allora, di acqua sotto i ponti ne è passata e le sensibilità sono cambiate; non vi è più traccia sulle copertine di quotidiani, settimanali e mensili, di foto crude. Benanche in presenza di molti conflitti sparsi per il globo, sui media non si mostrano scene che possano turbare un diffuso sentire, almeno nelle nazioni cosiddette civili ricordo sommessamente che in alcune nazioni si mostrano su televisioni e giornali, filmati e foto delle esecuzioni capitali, con macabri dettagli su corpi straziati dai plotoni di esecuzione, tra boia spavaldi, scimitarra in mano, accanto a teste decapitate o rachidi cervicali spezzati da pubbliche impiccagioni, ancora oggi ahimè in voga.
In questo reportage fotografico, intitolato “One Ride with Yankee Papa 13” un giro con lo Yankee Papa 13 Burrows dimostrava grande sangue freddo, essendo in Viet Nam da più di tre anni e avendo quindi già vissuto molteplici operazioni militari, di cui molte sanguinose e drammatiche. Le altre immagini del reportage sull’elicottero e non solo, pur eccellenti, sono tutte di drammatico tenore.
La scrittura vivida e viscerale che accompagnava le sorprendenti immagini di Burrows, comprese le parole di Burrows stesso, trascritte da una registrazione audio fatta poco dopo la missione del 1965, hanno fatto storia. Le sue parole, riportate in corsivo.
Burrows nel suo rapporto scrisse: «I Viet Cong avevano scavato insediamenti lungo la linea degli alberi, stavano solo aspettando che entrassimo nella zona di atterraggio. Eravamo tutti come anatre sedute e il loro fuoco incrociato era devastante.»
Attraverso il sistema di interfono, un pilota chiamò via radio il colonnello Ewers, che era nel velivolo di testa: « … Colonnello! Ci stanno colpendo». La risposta non si fece attendere: «… Ci stanno colpendo tutti. Se il vostro aereo è pilotabile, aumentate la velocità.»
« … Lo abbiamo fatto», continuò Burrows, tornando di corsa ad un punto di raccolta per un altro carico di truppe. «Nel nostro avvicinamento alla zona di atterraggio, il nostro pilota, il capitano Peter Vogel, aveva avvistato lo Yankee Papa 3 a terra. Il suo motore era ancora acceso e i rotori giravano, ma l’elicottero era ovviamente in difficoltà. Vogel mormorò qualcosa all’interfono. Poi fece scendere il nostro velivolo nelle vicinanze per vedere quale fosse il problema.»
La descrizione del caos verificatosi nel tentativo di salvare un pilota dell’elicottero Yankee Papa 3 ferito, sanguinante dal collo: «Le pale dell’elicottero continuavano a ronzare e il fuoco nemico risuonava intorno ad esso.»
Con le raffiche del nemico che colpivano l’elicottero, non avevano altra scelta che allontanarsi velocemente per affidare quanto prima il pilota ferito alle cure sanitarie.
Lo Yankee Papa 13, dovette attendere non poco, prima che fossero fuori portata dall’incessante fuoco nemico.
«L’artigliere ventenne, Pfc. Wayne Hoilien stava sparando con l’altro mitragliatore in una seconda posizione, sulla linea degli alberi alla nostra sinistra. I fori di proiettile gli avevano strappato il sedile sia a destra che a sinistra. Il plexiglass era stato saltato fuori dall’abitacolo e un proiettile aveva colpito il collo del nostro pilota. La nostra radio e gli strumenti erano fuori uso. Ci arrampicammo e ci arrampicammo in fretta e furia. Hoilien stava sparando pure colpi di pistola contro la linea degli alberi.»
Solo quando YP13 si allontanò dalla portata del fuoco nemico, Farley e Hoilien poterono lasciare le loro armi e prestare assistenza medica ai due feriti di YP3. Il copilota, il primo tenente James Magel, era in cattive condizioni. Quando Farley e Hoilien gli hanno tolto il giubbotto antiproiettile, hanno trovato esposta una grave ferita appena sotto l’ascella. «Il volto di Magel ha mostrato dolore», ha riferito Burrows, «… e le sue labbra si sono leggermente mosse. Ma se ha detto qualcosa è stato annegato dal rumore dell’elicottero. Sembrava pallido e mi chiedevo per quanto tempo potesse resistere. Farley cominciò a fasciare la ferita di Magel. Il vento dalla porta continuava a frustare le bende sul suo viso. Poi il sangue cominciò a uscire dal naso e dalla bocca e uno sguardo vitreo gli entrò negli occhi. Farley provò la rianimazione bocca a bocca, ma Magel era morto. Nessuno disse una parola. Siamo rimasti tutti con i nostri pensieri, svuotati.»
«Tornammo alla base di Da Nang, in silenzio, con i morti a bordo. Il cannoniere dell’elicottero, il sergente Owens, era stato colpito 11 volte e si sedette accasciato in un angolo vicino al corpo di Magel.»
Al loro ritorno, il Capitano Vogel parlò con Farley per capire perché non avevano potuto salvare il pilota dello Yankee Papa 3. Disse Farley a Vogel: «Se fossimo rimasti altri dieci secondi sotto il fuoco delle mitragliatrici Viet Cong non saremmo mai usciti da lì.»
Questo il resoconto di Burrows, di una tra tante, tragiche giornate, che con assoluto realismo ce la fa rivivere nei crudi frangenti, con la sua emozionata e dettagliata testimonianza. Leggendo il corsivo è come se rivivesse anche lui, mi piace pensarlo.
Nel suo ritratto bruciante e profondamente simpatetico di giovani che combattono per la loro vita proprio nel momento in cui l’America sta intensificando il suo coinvolgimento nel sud-est asiatico, Larry Burrows riesce ad anticipare la portata del terribile e letale conflitto.
Sei anni dopo la drammatica e pericolosa corsa di “Yankee Papa 13” pubblicata poi su LIFE, la morte, inesorabile, abbracciò Burrows insieme ad altri tre suoi colleghi.
Fonti, credit/courtesy: Time-Life.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
James Farley a sinistra e Wayne Hoilien, in un negozio a Da Nang, durante la libera uscita, ignari degli eventi che di li a poche ore li avrebbero travolti.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
Farley si prepara a salire a bordo dello Yankee Papa 13, con due mitragliatori SACO M60 da installare sull’UH-34D, nella fondina un revolver Colt Positive Special Cal. 38 canna da 4” (… canna lunga).
Ho preferito inserire solo queste due foto come compendio a quella di copertina, escludendo altre relative alle fasi drammatiche, fotografate da Larry sull’elicottero.
Note sull’elicottero Yankee Papa 13, reso famoso dalle foto di Larry Burrows.
Il Sikorsky H-34 Choctaw (denominato dal fabbricante S-58) è un elicottero militare a pistoni originariamente progettato dal costruttore di aeromobili americano Sikorsky come velivolo da guerra antisommergibile (ASW) per la Marina degli Stati Uniti. Un uso esteso si è sviluppato quando è stato adattato alla potenza delle turbine dal licenziatario britannico Westland Wessex e Sikorsky con il successivo S-58T. Con l’unificazione delle sigle militari statunitensi nel 1962 la sigla divenne H-34A
Gli H-34 servivano, principalmente come mezzi di trasporto medi, in tutti i continenti con le forze armate di 25 paesi. Impiegato in Algeria, Repubblica Dominicana, Nicaragua e in tutto il sud-est asiatico. Altri usi includevano il salvataggio delle vittime dell’alluvione, il recupero degli astronauti, la lotta agli incendi e il trasporto di presidenti. Fu l’ultimo elicottero con motore a pistoni utilizzato dal Corpo dei Marines degli Stati Uniti, essendo stato sostituito da modelli a turbina come UH-1 Huey e CH-46 Sea Knight. Un totale di 2.108 H-34 furono fabbricati tra il 1953 e il 1970.
Fonte: Wikipedia

Dicembre 1965. Vista del ponte di volo della nave da assalto anfibia USS Iwo Jima (LPH-2) con i marines che si imbarcano sui Sikorsky UH-34D Seahorse dello squadrone di elicotteri HMM-163 “Ridge Runners” per un sbarco a Vung Mu, Viet Nam, durante l’Operazione Dagger Thrust.

Photo credit/courtesy: © Thomas Pilsch
UH-34 Choctaw “Evil Eyes”.
Gli “Evil Eyes” dello squadrone HMM-163 furono una visione gradita ai soldati feriti, nella Valle di A Shau (… battaglia di Hamburger Hill, collina 937) e altrove, durante la guerra in Viet Nam.
Il celebre Squadrone HMM-163, “Ridge Runners”.
Da febbraio a ottobre 1965, lo squadrone di elicotteri HMM-163 “Ridge Runners” divenne famoso per le sue operazioni in Viet Nam. Ciò è dovuto principalmente a un saggio fotografico di Larry Burrows sulla rivista LIFE: “Una cavalcata con Yankee Papa 13”, che documentava la morte in combattimento del pilota dei Marine. Tenente James E. Magel e il salvataggio del cannoniere ferito, Sergente Billie Owens, durante un missione con un H-34 che trasportava truppe dell’Esercito della Repubblica del Viet Nam (ARVN) vicino a Da Nang il 31 marzo 1965. Per la maggior parte dei cittadini degli Stati Uniti, questa è stata la prima volta che sono stati informati dell’entità del coinvolgimento americano in Viet Nam.
Alla fine di ottobre del 1965, lo squadrone HMM-163 (Marine Medium Helicopter Squadron 163) si trasferì alla stazione aerea del Corpo dei Marines Futenma di Okinawa, in Giappone. Il capitano Al Barbes, ufficiale dell’intelligence dello squadrone, offrì un suggerimento, avendo studiato la cultura e le credenze radicate nel sud-est asiatico: propose di dipingere coppie di occhi minacciosi, stile fumetto, sulla prua degli aeromobili dell’unità, così da poter avere un effetto inquietante sul nemico. Nacque il concetto di “The Eyes” sugli elicotteri dello squadrone HMM-163.
La foto sul ponte di volo della USS Iwo Jima mostra gli UH-34 dello squadrone HMM-163, privi di “occhi”, ma è stata scattata a Dicembre. Di li a pochi giorni quegli stessi elicotteri si doteranno dei “minacciosi” occhi sulle prue.
Il 1° gennaio 1966, lo squadrone HMM-163 volò con un Lockheed C-130 a Phu Bai, in Viet Nam, dando il cambio allo squadrone HMM-161 e prendendo il controllo di tutti i loro elicotteri H-34. La pittura iniziò immediatamente, di quelli che allora furono chiamati “Genie Eyes” (dopo il programma televisivo “I Dream of Jeannie”). Nel marzo del 1966, i “Genie Eyes” dello squadrone HMM-163 vennnero chiamati “Evil Eyes” dalle unità di supporto a terra.
Il 9 marzo 1966, la 95a divisione del 95° reggimento dell’Esercito popolare del Viet Nam del Nord (PAVN) attaccò il campo delle forze speciali nella valle di A Shau a circa 30 miglia a sud-ovest di Hue, nella provincia di Thua Thien. Era un punto strategicamente importante per il PAVN come principale via di infiltrazione, perché era adiacente al sentiero Ho Chi Minh. A difendere il campo c’erano 10 Berretti Verdi e 210 gruppi civili di difesa irregolare del Viet Nam del Sud, supportati da unità Air Commando equipaggiati con bombardieri/aerosiluranti monoelica, entrato in linea dopo la Seconda Guerra Mondiale, 1947, Douglas A -1 Skyraider e il cannoniere volante Douglas AC-47 Spooky ( …. il celebre Dakota). Lo squadrone HMM163 sorvolò per oltre 2.000 ore di volo, in dieci giorni durante quella battaglia in cui 190 sopravvissuti furono salvati dalla cattura del nemico, grazie all’intervento di questi elicotteri. I sorvoli furono effettuati sotto il pesante fuoco antiaereo del nemico. Durante la battaglia, 21 dei 24 elicotteri assegnati allo squadrone subirono “gravi danni” inclusi i due che furono abbattuti.
Nell’ottobre del 1966, lo squadrone tornò di nuovo a Phu Bai, sempre con gli “Evil Eyes” in bianco e nero, sotto il comando del Tenente Colonnello Otto Bianchi. Il tenente Bianchi era un buon amico del comandante, ma ciò non impedì al Maggiore Generale Louis Robertshaw, 1° Comandante Generale, di leggere al Tenente Colonnello Bianchi la “Riot Act” legge contro gli atti di rivolta relativa allo schema di pittura non autorizzato. Nella sala, al tempo di questa conversazione, c’era anche il Comandante Generale delle Forze di terra dei Marine nella zona, che cortesemente interruppe dicendo: “È sicuramente bello avere gli Occhi diabolici qui a Phu Bai!” Il 1° Comandante Generale Louis Robertshaw cedette e gli “Evil Eyes” rimasero in bella evidenza sugli elicotteri UH-34 dello squadrone HMM-163. Lo squadrone rimase in Vietnam fino all’agosto 1968.
Fonte, credit/courtesy: Mr. Mervin Austin, Viet Nam Veteran.
Naturalmente in Viet Nam era presente un vasta gamma di bizzarri pittogrammi, sui velivoli militari, puntando agli effetti emotivi prodotti dalla percezione visiva del nemico, durante i combattimenti, come ulteriore addendum, nell’ambito della guerra psicologica, ma anche no, come mostra la foto sotto, con un fumetto tutt’altro che impressionante, sulla prua di un Bell UH-1 Iroquois, detto Huey.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life Pictures 1964. Viet Nam del Sud. Il Capitano Gillespie; paracadutista dei Rangers – Special Forces.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life Pictures
1964. Viet Nam del Sud. Un Capitano dell’esercito americano usa una siga- retta per bruciare le sanguisughe dagli avambracci.

Photo credit / courtesy: © Paul Schutzer – LIFE
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1965. Soldati americani attraversano una zona paludosa.
Un esempio di corso d’acqua, stagnante o semi- stagnante, dove le sanguisughe proliferano.
La testimonianza di un veterano del Viet Nam.
“Senza il senso dell’umorismo, il Viet Nam sarebbe stato insopportabile. Quello che segue è qualcosa che mi è successo quando ero un FNG*. Eravamo costantemente in acqua, nel delta del fiume Mekong. La maggior parte di esso era più simile al fango sottile che all’acqua e la maggior parte di esso sfociava verso il Mar Cinese Meridionale. Nei corsi del fiume dove vi era corrente non si riscontrava la presenza di sanguisughe, non riuscendo esse a riprodursi come nell’acqua stagnante e semistagnante. Nell’acqua salmastra ce n’erano tante e stando in piedi ne trovavi molte cosparse sul corpo.
Le sanguisughe in Viet Nam erano enormi, rossicce-nere, viscide e succhiasangue. Ancora oggi, dopo 25 anni, me le sogno e mi sveglio di soprassalto cercando di togliermele di dosso. Le sanguisughe trovavano la pelle esposta come una calamita. Si infilavano sotto le camicie e nei pantaloni.
C’erano due buoni modi per toglierle. Potevi bruciarle con una sigaretta o spruzzarle con un repellente per insetti, costituito da succo d’insetto. Il trucco della sigaretta era il più veloce, ma bisognava maneggiarla con le mani bagnate e non si doveva sbagliare. Il succo d’insetto era il metodo preferito perché era abbondante e le sanguisughe lo odiavano. Un piccolo schizzo di esso le faceva raggomitolare e le faceva cadere.
Tutti avevano un paio bottiglie di plastica da 4 once (… circa 113 grammi) con il succo d’insetto e ne avevamo molte su ogni elicottero di rifornimento. Senza un’applicazione pesante, di notte le zanzare ti avrebbero mangiato vivo. Era leggermente irritante per la pelle, bruciava nei punti più sensibili e non lo volevi proprio negli occhi. Il succo di insetto era uno strumento di guerra. Lo usavamo per accendere il fuoco; per pulire le armi; per respingere le creature grandi e piccole e mescolato con burro di arachidi, lo accendevi e ci riscaldavi i barattoli della razione “C”: spesso barattoli di carne e fagioli di Lima.
Dopo aver attraversato l’acqua salmastra, controllavamo che non ci fossero sanguisughe. Se uno trovava una sanguisuga, allora ce l’avevamo tutti. Abbiamo usato il “sistema Buddy” (… ausilio di un commilitone) per controllare i posti che non potevamo vedere senza uno specchio. Nessuno voleva addosso sanguisughe viscide e succhiasangue, ci si denudava e quindi un po’ di esibizionismo era uno scambio ragionevole. Funzionava.
Una volta, dopo aver attraversato un po’ di acqua sporca e puzzolente, ci siamo fermati a controllare se c’erano sanguisughe. Quando mi sono calati i pantaloni, ne avevo un paio sulle gambe. Mi sono spaventato e non sono riuscito a toglierle abbastanza velocemente! Mentre mi chinavo per bruciarle con una sigaretta, uno dei ragazzi in piedi dietro di me ha detto: “Ce n’è una! Proprio lì, nella fessura del tuo sedere!”.
Di tutti i posti dove si può avere una sanguisuga, quello era uno dei due posti in cui non volevo trovarne una. La mia risposta è stata: “TOGLIETELA!!!”.
Un collega mi disse: “non muoverti” e procedette a prendere la mira con una bottiglia di plastica di succo d’insetto. La spremette con entrambe le mani, producendo un getto di forza sufficiente a tagliare il vetro, diretto verso “la zona senza sole”. Le risate che scoppiavano da tutte le parti mi dicevano che ero stato fregato. Non c’era nessuna sanguisuga e il sedere è uno dei due posti dove non si vuole proprio essere spruzzati di succo d’insetto.
In breve tempo, ho iniziato a sentire una sensazione di bruciore. L’irritazione diventava sempre più calda e le risate sempre più forti. Ho dovuto saltare di nuovo nell’acqua, in quella zuppa di sanguisughe, per cercare di spegnere il fuoco.
Tutti si sono fatti una bella risata, ma non mi sono divertito. Il mio didietro mi avrebbe bruciato per il resto della giornata. Dopo un breve periodo, dovevamo andare avanti e io dovevo gestire il meglio che potevo quella condizione. Ho dovuto camminare piegato per un po’, ma non è durato per sempre.
Ho superato il dolore al sedere e ho superato il fatto di essere il tizio della barzelletta. A ripensarci ora, è stato piuttosto divertente. Era qualcosa di cui solo una collega FNG* si sarebbe innamorata.
Il morale di questa storia potrebbe essere: di fronte alle avversità, piegati e strappa un sorriso e anche chi ti sta intorno sorriderà.”
Credit/courtesy: © 1997 By Thomas J. Hain, Viet Vet’s.
FNG*. L’acronimo “FNG” utilizzato nello slang militare americano, significa “Fucking New Guy” (… f. nuovo tizio) è l’abbreviazione di un termine sboccato ma goliardico, utilizzato come fosse una sindrome, reso popolare dai combattenti, dai cappellani militari e dai medici da combattimento dell’esercito degli Stati Uniti e dal Corpo dei Marine.
Di solito, ma non sempre, il termine si riferiva ai cosiddetti “pivelli”, comprensibilmente goffi e impacciati, appena arrivati dagli Stati Uniti, dai rispettivi centri di addestramento, che si aggiungevano alle unità preesistenti in Viet Nam. Ogni unità aveva un FNG da integrare tra gli elementi esperti (… longevi nel tour of duty) e il termine veniva usato per tutti i tipi di unità, dal combattimento in prima linea fino alle unità di supporto e mediche. Il termine non era specifico di genere; anche il personale femminile poteva essere FNG.
Il fenomeno dell’FNG è nato dalla politica di turnazione individuale nelle forze armate statunitensi durante la guerra del Vietnam, in base alla quale le singole truppe venivano fatte ruotare, nel servizio di leva obbligatorio (… tour of duty) di dodici mesi, con unità già dispiegate in Vietnam. L’individuale avvicendamento, con il metodo dell’affiancamento, facilitava l’integrazione dei nuovi arrivati nei reparti combattenti, già ben rodati, permettendo agli FNG di accumulare esperienza e competenza, al fine di garantire una sufficiente incolumità delle reclute stesse e delle proprie unità di appartenenza. Dicevo che era usato come fosse una sindrome, ad evidenziare un stato quasi catartico, di chi arriva dalla scuola di addestramento, sul teatro delle operazioni belliche. Il salto è notevole, perchè nei centri di addestramento possono insegnare tutto ciò serva a mantenerti in vita, poi però l’esperienza sul campo di battaglia è un’altra storia. La guerra non fa sconti e l’ambientamento, prima avveniva e maggiori possibilità si aveva di rimanere in vita, evitando altresì di mettere in pericolo i propri commilitoni, salvo poi gli episodi, le situazioni, le congiunture, che spostano l’ago dello strumento chiamato fato, verso la vita o la morte.
Chiaro che la guerra è per definizione, un “luogo“ pericoloso, ma il sistema di affiancamento funzionava, limitando al minimo gli incidenti e i fenomeni di “fuoco amico”, pur essendo queste, circostanze ineliminabili.
Analogamente in Italia in tempo di pace però, è bene dirlo con chiarezza durante l’epoca del servizio di leva obbligatoria, le reclute, al centro addestramento, quindi nel primo e nel secondo mese, ma molto spesso anche dopo, (… proprio come nelle forze armate americane) venivano appellate, stavolta con italica inventiva, dai più anziani, i cosiddetti “nonni”, con una diversificata terminologia, a significare e specificare una miserrima condizione da “imbranato”. Tra questi bizzarri nomignoli, i più noti: “spina”, “missile”, “rospo”, “svizzero” in Cavalleria; “burba” o “burbetta” in Aeronautica; “scimmia”, “razzo” e “mostro”, tra i Paracadustisti e quant’altro, a seconda dei reparti di appartenenza. Dall’altro lato della scala c’erano i più anziani, i cosiddetti “fantasmi”, quelli cioè che si approssimavano al congedo di fine ferma. A parte i fenomeni criminali di violenza e sopraffazione, queste consuetudini erano tutte utilizzate per determinare una sorta di gerarchia nella truppa, tollerata da graduati, sottufficiali e ufficiali, solo entro i limiti della educazione e pacifica convivenza, fatto salvo rare eccezioni, come dicevo, di devianza criminogena.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
3 Agosto 1965. Un esempio di FNG… preferisco “pivello”.
Sguardo rassegnato di un quasi implume marine, sovraccarico di equipaggiamento, partito dagli USA e appena arrivato a Da Nang, Viet Nam del Sud.
Larry, con occhio aguzzo, lo ha visto e immortalato.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
Ottobre 1966.
Marines americani, durante l’Operazione Prairie, vicino alla zona demilitarizzata, *DMZ, Viet Nam del Sud. Dopo aver fallito nel loro primo tentativo di conquistare la collina 484, le truppe del 3° Battaglione 4a Divisione Marine si ritirano a distanza di sicurezza per permettere agli attacchi aerei e di artiglieria di neutralizzare il contingente nord vietnamita del NVA (North Vietnam Army).
Cosa era la DMZ.
*DMZ Demilitarized Zone: al termine della prima guerra di Indocina, presso la Conferenza di Ginevra, Luglio 1954, fu stabilita una divisione territoriale, attraverso una fascia geografica, pressochè sotto il diciassettesimo parallelo, che separava i due Viet Nam. Questa linea di demarcazione, Nord/Sud, fu utile nel conflitto successivo, per separare le aree di competenza territoriale tra le due opposte fazioni. Lunga più di 100 Km e ampia 8 Km. Era una area smilitarizzata e nel caso dell’Operazione Prairie, come in altre battaglie, gli scontri si svolgevano in prossimità e ai limiti di questa area, anche se gli sconfinamenti tattici facessero parte delle strategie belliche contrapposte.
5 Ottobre 1966. Operazione Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud.
La sequenza degli scatti di Larry Burrows che vado ad analizzare, sono tutti eseguiti nello stesso giorno e collocati su una unica specifica località, chiamata Nui Cay Tri, denominata dai marines, Mutter’s Ridge il Crinale di Mutter conquistata dal 3° Battaglione della 4a Divisione Marine. Il crinale era formato dalle colline 400, 461 e 484 e si affacciava sul margine meridionale della zona demilitarizzata, DMZ, in Viet Nam del Sud, quindi, come abbiamo visto dalla cartina e dalla descrizione, non molto distante dal Viet Nam del Nord.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images 5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Vietnam del Sud.
Reaching Out – Raggiungendo.
Probabilmente la foto più rappresentativa di Burrows, pubblicata su LIFE.
Ben Cosgrove la paragona a un dipinto di Hieronymus Bosch. Sommità del “Crinale di Mutter”.
Il Sergente dei Marine Jeremiah Purdie, ferito e con la testa fasciata, si avvicina al suo amico e commilitone, ad un passo da lui, accasciato e infangato, dallo sguardo spento, gravemente ferito durante i combattimenti, nei pressi di Nui Cay Tri (… che significa: montagna di bamboo), per il controllo della Collina 484, durante l’Operazione Prairie sotto la DMZ, Viet Nam del Sud. Il collega con gli occhiali sulla sua destra cerca di frenare con la mano sinistra la foga di Jeremiah, mentre un altro collega dietro di lui lo sorregge con la mano destra e con la sinistra sfiora il suo braccio come a prevenire un eventuale incespicare nella poltiglia fangosa, visto che è anche ferito al ginocchio destro.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud.
Jeremiah era stato aiutato a risalire le pendici del “Crinale di Mutter” piene di fango e sterpaglie, per raggiungere la sommità dello stesso crinale e la foto in verticale scattata a distanza ravvicinata con il 28/2.8 Leitz Elmarit, lo documenta.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud.
Lo scenario dove si colloca la famosa foto, Reaching Out di Burrows era proprio qui, sul vertice del “Crinale di Mutter”, dove i marines avevano allestito un First Aid Station: punto di raccolta di primo soccorso, ben descritto in questa ulteriore foto di Larry. I teloni verde scuro sono già riconoscibili nel dettaglio, sulle “quinte” della storica foto Reaching Out. I teli cerati, utilizzati per proteggersi dalle copiose pioggie, erano un riparo alla bene e meglio, in special modo per i feriti più gravi. Le condizioni del terreno argilloso, completamente imbevuto d’acqua dimostrano l’abbondante rilevanza delle piogge monsoniche precipitate sul luogo. I colori risentono della variabilità del tempo, in questo caso il grigiore del cielo, carico di nuvole minacciose che si addensano sui rilievi montuosi e collinari, ci consegnano una temperatura colore intorno a circa 6300°/6500° Kelvin.
Da questa foto d’insieme, Burrows si sposta poi sul marine con la benda, a sinistra dell’inquadratura e la foto sotto ci illustra il dettaglio che voleva registrare Larry.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images
5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud. Sommità del “Crinale di Mutter”.
Nella foto precedente si può scorgere il primo marine a sinistra, ferito negli scontri per la conquista della collina 484, durante l’Operazione Prairie, vicino alla zona demilitarizzata, DMZ. Larry si sposta per un ritratto del marine, già medicato e tamponato qui al First Aid Station, mentre si rifocilla. Appesa alla mimetica vi è il referto, redatto dal medico se presente sul posto o dall’infermiere specialista. Il modulo per il referto era stampato su tela leggera, così che la pioggia non lo sbriciolasse. Una volta trasportato all’ospedale da campo i medici leggendo la relazione clinica, conoscevano da subito l’entità della ferita e avendo già un quadro chiaro e immediato della situazione, erano facilitati nel riscontro accurato della diagnosi, così da poter procedere più celermente in ulteriori controlli e successive cure specifiche del caso. Inoltre il referto rimaneva nel fascicolo del militare e segnalato sul foglio matricolare dello stesso. Rispetto alla foto precedente, la temperatura colore, grazie alla variabilità del tempo e quindi al diradamento delle nuvole, è visibilmente cambiata, appaiono infatti toni più caldi e maggiore luminosità della scena, con una temperatura colore intorno a circa 2500°/2700° K.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images 5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud. Sommità del “Crinale di Mutter”.
I Marines americani aiutano altri compagni feriti durante i combattimenti per la conquista della collina 484. Qui come nel due foto precedenti Burrows scatta una prima foto, sempre con il suo inseparabile Leitz Elmarit 28/2.8, riuscendo a riprendere le cure a cui è sottoposto un marine, in basso e i due dietro che trasportano a fatica un buddie ferito che non può camminare.

Credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life. 5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud. Sommità del “Crinale di Mutter”.
Una ulteriore foto ravvicinata di Burrows sul dettaglio in basso della foto precedente, fa da copertina al numero di Life Magazine del 28 Ottobre 1966. Dal precedente scatto effettuato con M3 e Leitz Elmarit 28/2.8, Larry passa all’altra M3 con 50 Leitz Summicron DR, così da ritagliare nel particolare le fasi convulse dell’intervento medico sul marine ferito. Come si può notare il 50mm comprime leggermente i piani accalcando, spalle, braccia e teste, tutte a ridosso, con il terreno fangoso da sfondo, che appare molto ravvicinato. L’apertura del diaframma, in base ai piani a fuoco, è valutabile intorno a circa f/4 e f/5.6.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life / Getty Images 5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud. Sommità del “Crinale di Mutter”.
Larry torna sul terzetto e avvicinandosi riesce a descrivere lo sforzo dei due colleghi che sostengono il ferito, mentre lo trasportano al punto improvvisato di primo soccorso, fondamentale per le cure immediate. Sempre con il Leitz Elmarit 28, nei frangenti più concitati, avvicinandosi e non potendo chiudere troppo il diaframma per le condizioni espositive della luce, riesce comunque in iperfocale a riempire il fotogramma con una buona nitidezza. Il cielo è di nuovo uggioso e risente inoltre della calata del sole che a quelle latitudini, in ottobre, fa presto a scendere. I colori risentono di questa variazione con una temperatura colore sopra a circa i 6000°/6200° K., mentre la precedente, sempre del terzetto, poteva essere intorno a circa 2900°/3100° K.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time Life Pictures-Getty Images. Non pubblicata su LIFE. 5 Ottobre 1966. Operation Prairie vicino alla DMZ, Viet Nam del Sud. Sommità del “Crinale di Mutter”.
Oltre al punto di raccolta di primo soccorso, dove ricevere cure e farsi medicare, sul vertice del “Crinale di Mutter”, i marines avevano organizzato un accampamento improvvisato, allestendo anche punti di ristoro. Qui i marines consumano il rancio mangiando razioni “C”, durante un breve periodo di quiete dei combattimenti vicino alla DMZ.
Il momento conviviale era necessario non solo per reintegrare preziose energie, ma anche e soprattutto per “staccare la spina”, benanche per poco tempo, potendo così dare breve sollievo alla psiche, consunta da ansie, paure e dalla continuativa serrata attenzione.
La presenza dei giubbotti antiproiettile indossati dai marines, attesta che trovandosi in zona di operazioni, lungo la DMZ, i militari mantengono un dressing outfit in configurazione da combattimento, pronti a proteggersi e a reagire in qualsiasi momento.
Il buddy al centro senza elmetto, con mani congiunte (… unione dell’intelletto e del cuore, del pensiero e del sentimento) e sguardo sui barattoli, sembra pensare: “… il menu à la carte di oggi che mi offre?”.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life Pictures / Getty Images. Ritratto di un marine, della terza divisione Marines, nei pressi della DMZ, durante l’Operazione Prairie.
3 Agosto 1966 31 Gennaio 1967. Operation Prairie, Viet Nam del Sud.
L’obiettivo degli Stati Uniti e delle forze alleate, era quello di impedire all’esercito nord-vietnamita di attraversare la DMZ e di invadere la Provincia di Quang Tri. L’operazione consisteva in una serie di battaglie principalmente nelle regioni di Con Thien e Gio Linh lungo la zona demilitarizzata DMZ che separava il nord e il sud del Viet Nam.
Il ritratto, lascia ampio spazio alle considerazioni di ordine psicologico. Dallo sguardo trapela stanchezza, ma la condizione emotiva l’ha tratta Burrows in questa istantanea, conoscendo il contesto del momento. Al cospetto di eventi indicibili, la naturale reazione umana è lo scuotimento interiore che traspare nel volto di chi assiste e partecipa a vicende di tale natura. I segni di questo passaggio emotivo sono transitori sui volti, ma permanenti nell’animo.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life Pictures/Getty Images.
Operation Prairie. Viet Nam del Sud.
Un secondo scatto di Larry, in verticale, ci mostra come lo sguardo del marine non sia cambiato, anzi sembra ancor più angustiato. Il collega di sfondo è lo stesso dello scatto precedente; non so se fissasse qualcosa, qualcuno in particolare o il nulla, lo sguardo infatti è intenso, quasi attonito.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time-Life Pictures/Getty Images.
Ottobre 1966. Operation Prairie. Viet Nam del Sud.
Un marine, sguardo perso, stravolto e ferito viene bendato durante l’Operazione Prairie vicino alla DMZ.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time Life. 11 Ottobre 1966. Operation Prairie. Hill 484, Viet Nam del Sud.
Vicino alla collina 484 e sotto il fuoco nemico, i marines trasportano i buddies feriti allo Huey di soccorso del MEDEVAC. Nel precedente articolo: “Operation Apache Snow”, avevo inserito una foto a colori di Larry Burrows insieme alla sequenza in bianco e nero di Cathy Leroy, per dimostrare che si trovavano entrambi in quella radura, durante quelle concitate fasi di recupero feriti. Ecco un’altra foto di Larry mentre era li con Cathy.

Photo credit/courtesy: Larry Burrows © Time Life.
Uomini del 2° Battaglione, 5a Divisione Marine, mani unite, concentrati in preghiera durante la messa, in una pausa dei combattimenti durante l’Operazione Prairie, Ottobre 1966, Viet Nam del Sud.
Il Cappellano, Capitano Bill Carpenter solleva il calice durante una messa cattolica all’aperto, di fronte a qualche dozzina di parà della la 101a Divisione aviotrasportata nota come Screaming Eagle: “Aquila urlante”, simbolo dell’emblema esposto sulla spalla destra della divisa. Storicamente è la divisione più prestigiosa dell’esercito americano, avendo partecipato durante la Seconda Guerra Mondiale alla battaglia di Normandia, all’assedio di Bastogne e all’Operazione Market Garden. Durante la guerra in Viet Nam, nel difficile teatro delle operazioni, ebbe specificatamente un impiego d’assalto.
L’uso del 28mm, in questo caso l’Elmarit, oltre ad evidenziare i soldati inginocchiati in primissimo piano, imprime un’enfasi suggestiva allo scenario, con il cappellano in posa ieratica nel momento di massima silenziosa meditazione degli astanti. Prostrati, molti a capo chino, davanti al calice innalzato dall’ufficiale in mimetica, con sguardo rivolto in alto e mani protese; gesto sacrale e fortemente evocativo.
Anche in questo ambito, fin dalla Prima Guerra Mondiale, le forze armate americane, hanno garantito e sempre ben rappresentato tutte le fedi e confessioni dei loro soldati. L’incarico si sviluppava attraverso peculiari e diversificati servizi religiosi, officiati e condotti da ufficiali cappellani, appositamente preposti alle specifiche e distinte fedi. L’ufficio inoltre prevedeva altri delicati compiti, quali: curare, in concorso con gli psicologi, le ferite interiori dei militari; custodire le rispettive fedi; supportare e confortare con premura le anime dei militari. Nel conflitto del Vietnam, come nei precedenti, questi ufficiali hanno spesso prestato i loro servigi di supporto morale, anche tra le popolazioni civili, esposte loro malgrado alla crudeltà della guerra. Non sono mancati tra le loro fila, molti cappellani vittime del conflitto.
Ma dove originava questa storica, affilata sensibilità, verso le differenti fedi e confessioni. Nell’articolo precedente, Operation Apache Snow, ho citato la prima Convenzione sui diritti delle donne avvenuta nella Wesleyan Chapel a Seneca Falls (New York) il 19 e 20 luglio 1848. Già da lì si è potuto capire come l’atteggiamento positivo ai diritti, fosse solo un naturale passaggio intermedio, coerente e pertinente, con i principi fondativi, già evoluti e moderni, sin dalla nascita di quella nazione.
Nella parentesi storica cerco di dipanare la complicata matassa.
Giuseppe Ciccarella
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